Venezia, una città unica al mondo

Contemplando lo splendore senza fine della Serenissima, non pensiamo a come è stata costruita, sia materialmente, sia nei suoi presupposti ideali. Ecco un piccolo quadro che potrà introdurci nella conoscenza del millenario mondo veneziano.
Milioni di pali sotto Venezia
Centinaia d’isolotti, 140 canali minori, il Canal Grande coi suoi 4 chilometri, profondo da 3 a 5 metri; nelle corti e nei campi (le piazze veneziane) c’erano un tempo 6.000 vere da pozzo in marmo a raccogliere le acque piovane, filtrandole; 400 ponti arcuati, dal XV secolo, al posto di quelli di legno: su tutto questo poggia Venezia.
Nel XIX-XX secolo l’interramento di molti rii e barene (terreni periodicamente sommersi dall’alta marea) ha ristretto gli specchi d’acqua, favorendo l’acqua alta. A Venezia gli edifici sono leggeri per il terreno friabile: s’infiggono pali verticali collegati a travi orizzontali a formare una piattaforma su cui costruire. Venezia poggia su milioni di pali pietrificati, infissi nel terreno per consolidarlo.
Le feste veneziane
Per tradizione a Pasqua il Doge, col corno ducale più prezioso (zogia, gioia) ombrellino, seggio ripiegato e spada (simboli del potere) si recava a San Zaccaria, ricevuto dalla badessa del convento; qui assisteva alla Messa del Patriarca, cui faceva seguito un sontuoso banchetto in refettorio.
La Festa della Sensa (Ascensione) era la più celebre, con immenso corteo di barche a far ala al Bucintoro, la nave d’oro del Doge. La festa ricordava la vittoria veneziana sui pirati slavi nel 1000 e la pace del 1177 fra Papa Alessandro III e l’Imperatore Federico Barbarossa, mediata dal Doge Sebastiano Ziani, cui il Papa donò lo stocco d’oro e un anello con le parole: «Ricevetelo in pegno della sovranità che Voi ed i successori Vostri avrete perpetuamente sul Mare».
L’antica benedizione divenne così lo sposalizio di Venezia col mare, nelle cui onde il Doge gettava l’anello nuziale con le parole: «Desponsamus te mare, in signum veri perpetuique dominii».
Per decreto papale chi visitava la Basilica marciana nei 15 giorni successivi alla Sensa otteneva l’indulgenza dei peccati.
Oltre le visite del Doge alla Chiesa di San Rocco e alla Madonna della Salute, che salvò la città dalla peste nel 1630, vi era la solenne processione del Corpus Domini in Piazza San Marco, e la festa per l’elezione del nuovo Doge.
Designato da Dio, era presentato al popolo in Basilica, dove giurava di garantire alla Repubblica pace, prosperità e giustizia; salito quindi su una portantina, era portato in processione per Piazza San Marco fra ali di folla plaudente cui il Doge gettava monete d’oro e d’argento.
Dalle Procuratie a festa con arazzi e drappi dame e damigelle lanciavano fiori e confetti. Quindi avveniva l’incoronazione a Palazzo Ducale, ai piedi della Scala dei Giganti: il Doge giurava fedeltà alle leggi, riceveva il camauro (cuffia di tela bianca leggera) e il corno o copricapo dogale di color cremisi, tempestato d’oro e pietre preziose.
Infine, teneva il primo discorso al Maggior Consiglio. Davanti a San Marco si radunava un’infinità di barche issanti bandiere e drappi colorati, e i marinai cantavano le lodi del neoletto; in piazza sfilavano le rappresentanze delle scuole e dei mestieri e si allestivano giostre e tornei.
La Festa delle Marie
Fu originata dal rapimento da parte di pirati dalmati di giovani fanciulle, che erano in procinto di sposarsi nell’antica Cattedrale di San Pietro in Castello (2 febbraio 946). Inseguiti dalle navi veneziane, raggiunti nella laguna di Caorle, in località Porto delle Donzelle (il toponimo conserva tuttora memoria del fatto) furono tutti passati per le armi e le fanciulle liberate.
Così ogni 2 febbraio, festa della purificazione della Vergine Santissima, 12 fanciulle in abito nuziale, belle e povere, venivamo portate in processione a San Pietro in Castello, le loro nozze benedette, quindi condotte a Palazzo Ducale, dove il Doge e il patriziato offrivano loro un ricco banchetto e doni preziosi quale dote.
Poi, salite sul Bucintoro scortato da altre imbarcazioni, raggiungevano per il Canal Grande la Chiesa di Santa Maria Formosa dei Frari, dove avevano luogo altre celebrazioni.
Carnevale, il volo del turco. Il lotto e i caffè
Famosissimo, il carnevale durava dal 26 dicembre al Mercoledì delle Ceneri, giorno in cui cominciava la Quaresima. Il giovedì grasso lo stesso Serenissimo Prìncipe assisteva dalla loggia di Palazzo Ducale ai divertimenti e ai giochi della popolazione, a ricordo di un’antichissima vittoria.
Era il giorno del volo del turco: un equilibrista camminava su una corda dal campanile di San Marco alla reggia ducale, recando al Doge i suoi omaggi.
Divenne poi il volo dell’Angelo: un uomo con le ali veniva calato a gran velocità lungo la corda cui era appeso con degli anelli. Dopo un grave incidente, diventò infine il volo della colombina: una grande colomba di legno, scivolando sulla corda e partendo sempre dal campanile, liberava sulla folla fiori, coriandoli e fuochi d’artificio.
Le maschere carnevalesche più frequenti erano quella femminile di velluto nero (moretta) e la baùta bianca. Per Carnevale vi erano attrazioni di ogni tipo: giocolieri, acrobati, musicisti, danzatori, spettacoli con animali, venditori ambulanti con ogni genere di mercanzia e teatri affollati.
Il 21 dicembre 1715 avvenne l’invenzione del lotto, con i primi numeri estratti e gridati dalla loggetta sotto il campanile di San Marco. Un po’ ovunque in Venezia in quei giorni si aprivano i caffè: nel 1720 è la volta del Caffè Florian in Piazza San Marco, sotto le Procuratie Nuove, il più celebre di tutti e che esiste ancor oggi.
Il Boccolo
È antica tradizione a Venezia, nel giorno di San Marco (25 aprile) regalare alla fanciulla amata un bocciolo di rosa, quale simbolo di eterno amore. L’usanza risalirebbe ai tempi del Doge Orso I Partecipazio (864-881), la cui figlia Maria, non potendo sposare l’amato Tancredi perché di umile condizione, gli suggerì di partire e farsi un nome combattendo contro gli infedeli e poi tornare carico di gloria a Venezia a sposarla.
Tancredi si coprì d’onore, ma quando stava per tornare in Patria per coronare il suo sogno d’amore fu mortalmente ferito in battaglia: si accasciò allora su un rosaio, tingendo con il proprio sangue un boccolo di rosa. Ultimo suo gesto fu quello di consegnare quel fiore a uno scudiero che lo portasse in ricordo alla sua amata. Straziata dal dolore, la giovane si ritirò nelle sue stanze e la mattina dopo fu trovata morta con il bocciolo di rosa sul cuore. Era appunto il 25 aprile, giorno di San Marco.
La società politica e lo zecchino veneziano
Il patriziato veneziano (4% della popolazione) era di origine mercantile, anziché feudale come quello di terraferma, e aveva il solo titolo di patrizio (N.H. Nobilis Homo). Ci volevano 14 fasi per eleggere il Doge, per evitare interessi di fazione. Esclusi gli ecclesiastici dalla Cosa pubblica, la classe intermedia si rappresentava nel Gran Cancelliere, carica vitalizia.
Vi erano poi le corporazioni, i “corpi dei mestieri” con le loro spettacolari scuole. Celebre nel mondo quanto i vetri di Murano e i merletti di Burano, lo zecchino veneziano fu coniato la prima volta nel 1284, con lo stesso valore del fiorino di Firenze. Divenne moneta internazionale per la purezza del suo conio (990 per mille). Nel ‘200 la metà di tutto l’oro della Cristianità era a Venezia.
Lo spirito tradizionale e cattolico
Dagli statuti del Doge Jacopo Tiepolo (1242): «Faza i Nostri Zudesi [Giudici], sì come iusto, et equo alla sua providentia parerà, habbiando Dio avanti gli occhi della sua mente, sì che nel giorno del distretto examine, essi possan davanti il tremendo Zudese [Gesù Cristo] rendere degna rason».
Commovente il miracolo del ritrovamento del corpo di san Marco. L’antica chiesa marciana era andata distrutta in un incendio nel 972 e le spoglie del Santo erano state nascoste durante le guerre di fazione. Nel giugno del 1094 il doge Vitale Falier ordinò un digiuno di tre giorni con processione solenne nel quarto, affinché Venezia potesse ritrovare il suo Patrono. Le pietre di una colonna si smossero e il corpo del Santo apparve rivestito dei parati sacerdotali, intatto come se stesse per cantare Messa. Era il 25 giugno 1094, da allora festa del ritrovamento del Santo.
La Repubblica, conobbe anche un Doge santo come san Pietro Orseolo (976) e il beato Pietro Acotanto, patrizio veneto (1187).
Al Museo Correr si conservano poi gli antichi bandi della Signoria per riscattare i cristiani prigionieri degli islamici. Nel 1697 il beato Marco d’Aviano, suddito veneto, predicò gli esercizi spirituali alla Signoria al completo; al termine il Doge, baciandolo in fronte, lo ringraziò con queste parole: “Padre Marco, voi siete la salvezza della nostra Repubblica”.
Patriziato, scuola di sacrificio
Il nobiluomo a Venezia nei secoli XIII-XVI seguiva un preciso cursus honorum: studi a casa fino a 14 anni; imbarco come balestriere sulle galee da guerra di scorta ai mercantili e sue prime esperienze mercantili. Imbarco su navi di famiglia, a seguire tutte le operazioni commerciali, stabilendosi per anni in una città d’Oriente. Infine il ritorno da uomo maturo a Venezia, dove ricopriva qualche carica politica, obbligatoria e gratuita.
L’Arsenale
Ricordato da Dante nel XXI canto dell’Inferno (Quale ne l’arzanà de’ Viniziani / bolle l’inverno la tenace pece / a rimpalmare i legni lor non sani, / ché navicar non ponno in quella vece), fu fondato nel 1104 e produsse navi sino alla fine dell’800. Si estendeva su una superficie di 250.000 mq cintati da mura, praticamente il 5% di tutta la città.
Industria strategica per eccellenza per una potenza marinara come Venezia, poteva fabbricare una galera al giorno e arrivò a occupare fino a 10.000 lavoratori fra carpentieri, calafati, cordieri, fabbri, cannonieri, fabbricanti di vele, ancore, orifiammi, fanali ecc., costituendo all’epoca il più grande centro industriale europeo.
Le navi prodotte, che non andavano mai oltre le 350 tonnellate di stazza a causa dei fondali poco profondi della laguna, muovevano sia a vela che a remo. A differenza degli schiavi incatenati sulle navi del Turco, i rematori erano uomini liberi, cui si aggiungevano quelli chiamati a scontare la condanna al remo.
La gondola
È un’altra singolarità veneziana. Lunga circa 11 metri, larga al centro 1,40, priva di chiglie e di timone, quest’imbarcazione può filare veloce sull’acqua a 6 chilometri l’ora, girare su se stessa a 90 gradi per passare da un angusto rio a un altro, grazie alla sua straordinaria manovrabilità, dovuta alla poca superficie sommersa rispetto alla lunghezza totale.
Ha un solo rematore e circola, specie nei rii, sempre a sinistra con il remo a destra, lontano dagli edifici.
Ogni gondola è costituita da ben 280 pezzi lignei; di color nero dal ‘500, ad evitare ogni ostentazione di ricchezza; sulla prua ha un ferro con 6 denti davanti (i sestieri) e uno rivolto all’indietro (a simboleggiare la Giudecca) che serve a bilanciare il peso del rematore a poppa, ma anche come guida per mirare il centro quando passa sotto i piccoli ponti. Le gondole sono prodotte in cantieri specializzati, denominati squeri.
Questo testo di Nicola Cavedini è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. È possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it