Venezia, ispirazione dei vedutisti

Da Gaspar van Wittel (1659-1734) a Francesco Guardi (1712-1793), da Canaletto (1697-1768) al nipote Bernardo Bellotto (1720-1780), l’arte della veduta si è sviluppata e si è arricchita nel corso degli anni fino a diventare uno dei generi più richiesti dalla committenza soprattutto europea. Alla metà del XVIII secolo era molto diffuso il turismo culturale in Italia; la moda del Grand Tour portava ondate di visitatori da tutta Europa nei centri dell’arte della Penisola: questo pubblico migrante richiedeva souvenir da riportare in patria con le raffigurazioni dei luoghi visitati.
Venezia da sempre ha ispirato gli artisti del vedutismo che negli anni hanno rappresentato la poesia dell’incontro tra mare e cielo lungo i canali, i merletti architettonici di una città che contro le leggi fisiche si sostiene sulla precarietà, la dolce malinconia che avvolge il panorama e i brevi scorci. Oggi una mostra a Treviso racconta la città lagunare ritratta tra XVII e XVIII secolo in circa cento opere dei più grandi vedutisti dell’epoca. È un racconto serrato e coinvolgente, che permette di considerare i differenti modi interpretativi dei pittori e soprattutto permette di perdersi con la mente nella contemplazione della fragile ma bellissima oggettività del mondo.
Nascita del vedutismo
Nel XVII secolo la pittura di genere si contrapponeva a quella di storia evidenziando i caratteri particolari della realtà, invece di elevare il discorso fino a un piano di universalità. L’arte della veduta era considerata un’espressione minore anche rispetto al paesaggismo, eppure era un’arte accattivante che rappresentava senza commentare; un’arte fatta solo per il piacere dello sguardo.
Il pittore aveva un’impostazione scientifica nel riportare i dati reali sulla tela: egli sovente utilizzava la camera ottica per organizzare con correttezza lo spazio della scena da dipingere. Questa specie di scatola scura permetteva infatti di far riflettere la realtà esterna nei suoi specchi, riproducendo la scena, anche se con una prospettiva leggermente deformata.
A volte pittori quali Canaletto e Guardi non si curavano neppure di correggere quella lieve distorsione, che produceva in alcuni casi un effetto maggiormente avvolgente. La scena da rappresentare veniva in questo modo “ritagliata” dal restante panorama e questo permetteva al riguardante di prenderne le distanze e osservarla come fosse racchiusa in uno scrigno dei ricordi.
L’arte della veduta nasce nel Seicento e si lega subito alla città di Venezia. I primi artisti che si cimentarono nella trascrizione su tela delle feste e degli eventi della città furono stranieri. Fra questi si ricorda il tedesco Joseph Heintz, giunto in laguna già negli anni Venti. Molti personaggi dell’aristocrazia richiedevano opere di veduta per documentare la propria partecipazione agli eventi politici e mondani: dunque la richiesta di mercato ha dato un iniziale impulso alla nascita di questa particolare specialità.
Gaspar Van Wittel, il cui nome sarà più avanti italianizzato in Vanvitelli, alla fine del secolo rappresentò Venezia con un tocco particolarmente freddo e lucido, molto nordico: l’aria è tersa nelle sue vedute, la superficie dell’acqua è uno specchio appena increspato. Lo sguardo di chi osserva può arrivare lontano, fino agli ultimi edifici visibili sullo sfondo che si presentano nitidi come i soggetti in primo piano. Questa impostazione influenzò certamente la pittura di Luca Carlevarijs, il primo vedutista nostrano, nato a Udine, ma trapiantato a Venezia. La scritta sotto un suo ritratto lo definisce “pittore veneto ed eccellente cultore della matematica”.
Le sue vedute sono originali e omaggiano consapevolmente la maestosità e la bellezza della città; ogni occasione diventava la possibilità di un’esposizione solenne dei tanti attributi della Serenissima. Il suo volume di acqueforti Fabbriche e vedute di Venezia (1703) esplicitava la volontà di far conoscere all’estero i tesori della città.
Ogni mecenate straniero in arrivo a Venezia richiedeva un’opera di Carlevarijs come testimonianza di un qualche evento. Tuttavia questo artista non nasce come matematico vedutista, bensì è probabile che i suoi primi lavori fossero più legati al genere dei capricci di porti e ruderi, proprio della Roma del Seicento. Questo aspetto che gli conferisce una certa drammaticità rappresentativa (evidente ad esempio nei cieli frastagliati delle sue incisioni) lo distingue profondamente dalle evoluzioni successive del vedutismo definite con chiarezza dall’arte di Giovanni Antonio Canal, detto il Canaletto.
La fama di Canaletto
Egli imparò l’arte della veduta collaborando con il padre e lo zio, scenografi teatrali. Le movimentate scene d’angolo, le fughe prospettiche e tutti quegli espedienti che servivano nella creazione dello spazio teatrale vennero applicate da Canaletto nelle proprie composizioni pittoriche. Egli disegnava dal vero, prendendosi poi la libertà di riadattare in studio ciò che più conveniva per una perfetta resa estetica della veduta rappresentata. È stato spesso dimostrato infatti che le sue “versioni” non sono topograficamente esatte, me proprio in questa capacità compositiva risiede il segreto di tale pittore: egli conosce talmente bene nella mente ciò che vuole dipingere, da poterlo trasporre sulla tela conferendogli un valore universale.
Nei suoi quadri è affascinante anche il continuo brulicare di figurette, dapprima piccole macchie di colore, poi veri e propri personaggi intenti alle più varie attività: venditori, mercanti, donne al balcone, ricchi passanti, mendicanti, marinai e gondolieri, uomini d’affari e fanciulli. Gli scenari sono belli, ma la vera bellezza consiste nella vita che si svolge lungo i canali, sotto i portici e nelle piazze assolate. I cieli di Canaletto sono sereni, rassicuranti: il ricordo che lasciano al visitatore straniero è il migliore possibile. Il pittore raggiunse presto la gloria e fu amato soprattutto dalla committenza inglese, e il sentimento fu reciproco tanto che egli passò, a più riprese, circa dieci anni a Londra, dove si dedicò allo studio e agli schizzi dei paesaggi e delle vedute lungo il Tamigi.
Da Bellotto alla macchina fotografica
Canaletto fu sicuramente il più celebre vedutista a Venezia, e infatti l’attuale mostra gli dedica una grande sezione; ma altri pittori proseguirono e approfondirono questo genere pittorico conseguendo eccellenti risultati. Il nipote di Canaletto, Bernardo Bellotto, ebbe la fortuna di imparare nella bottega dello zio, tanto da imitarlo pedissequamente nelle sue iniziali vedute di Roma, Lucca, Padova e Venezia. Dotato di grande talento, gradualmente si staccò dalla maniera di Canaletto, giocando maggiormente sui toni di colore degli elementi naturalistici e conferendo ai suoi lavori una consistenza luministica anche materica, sfruttando la viscosità della pasta del colore.
A ventisette anni lasciò la Repubblica veneziana per l’Europa del Nord e non tornò più: in questo modo si allontanò dall’ingombrante figura del maestro, pur continuando a diffonderne la fama in quanto suo allievo. Tra i molti nomi di artisti pieni di inventiva e capacità, che continuarono a rendere prolifico il mercato della veduta in ambito veneziano, quali Michele Marieschi, Antonio Joli, Francesco Albotto, Pietro Bellotti, Apollonio Domenichini, Giambattista Cimaroli e Francesco Tironi, fu Francesco Guardi ad aprire una nuova strada all’arte della veduta.
Pur ereditando la tradizione dominante di Canaletto, i suoi lavori hanno un’impronta molto personale e per alcuni aspetti si avvicinano al “capriccio” di fantasia. La statica luminosità e brillantezza di Canaletto viene sostituita da una patina atmosferica che avvolge la tela e conferisce drammaticità e movimento alla rappresentazione.
La perizia di Guardi nella resa prospettica è senza dubbio inferiore a quella del caposcuola, eppure il valore espressivo raggiunge risultati di grande lirismo eliminando l’eccessivo artificio e ritornando a una poetica di semplicità. Successivamente Venezia continuò a essere amata e ritratta, ma gli artisti erano ormai interpreti e creatori più che traduttori della realtà oggettiva: con l’invenzione della macchina fotografica l’arte della veduta in senso puro divenne superflua.
Questo testo di Michela Gianfranceschi è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. È possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it