Togliatti e i cattolici

Con una formula complessiva possiamo dire che Togliatti fu il vero inventore della versione comunista della “rivoluzione nella legalità”; del tutto diversa da quella massimalista, che portò invece Allende al disastro. Le cose sono più complesse e il giudizio non può essere così semplice. Per cominciare, mostriamo come non ci sia contraddizione tra il suo stalinismo in Russia e il suo moderatismo in Italia. Proprio dall’osservazione e dal consenso alla politica staliniana, Togliatti derivava la necessità della politica conciliativa in Italia, simbolicamente sancita dalla conservazione del Concordato. Malgrado tutto, Stalin aveva salvato il comunismo in Russia, radicandolo nella tradizione di quel popolo. Soltanto un’operazione analoga, che le condizioni storiche esigevano venisse condotta in forma totalmente differente, poteva radicare il comunismo in Italia.
È a partire da qui che possiamo cogliere il senso preciso che egli annetteva al termine di «pluralità di vie nazionali»; non che egli pensasse a comunismi diversi o a un comunismo “in evoluzione” verso non si sa quale forma liberale o cattolica; quel che rifiutava «era il modello russo come termine di riferimento assoluto» e l’imperialismo che ne conseguiva. Il comunismo compiuto, l’ideale desiderabile era per lui un “al di là” rispetto ai comunismi già realizzati e nella sua costruzione poteva partire dall’Italia una parola decisiva.
È noto che egli fu l’estensore della Tesi di Lione nel gennaio 1926. Orbene, io penso che qualsiasi studio serio sul suo pensiero e sulla sua azione non possa partire che dall’analisi del fascismo che vi è contenuta e a cui egli rimase sempre fedele. Quest’analisi è poi più particolareggiatamente svolta nel saggio A proposito del fascismo del 1928, in cui si trova accentuato quel che della veduta generale di Gramsci, ispiratore delle Tesi, trovava in lui maggior rispondenza. Perché il fascismo aveva potuto vincere? Per la solidarietà che si era stabilita tra grossa borghesia e ceti sociali intermedi; e per la divisione tra classe operaia e classe contadina e proletari del Nord e contadini del Meridione.
Ora, al momento del suo rientro in Italia, parve a Togliatti che si fossero verificate le condizioni ottimali per questo rovesciamento di alleanze. Da una parte la grossa borghesia, che del fascismo e della guerra aveva profittato e che aveva lo scopo precipuo di conservare i suoi profitti dopo la sconfitta; dall’altra i ceti medi immiseriti, su cui gravavano i maggiori pesi della fiducia imprudentemente concessa. Ma quali sono i valori a cui essi, anche nella miseria, non intendono rinunciare?
L’ordine, la legalità, la patria; un certo riconoscimento dei princìpi morali tradizionali, che importa la garanzia che non si proceda a qualsiasi persecuzione antireligiosa aperta o strisciante. Si ribellano altresì contro la loro ingiusta proletarizzazione. Sono esigenze a cui Togliatti intende venire incontro. Rivoluzione, ma nella legalità. Questo il senso della sua politica di «continuità col vecchio Stato». Secondo gli azionisti, e si veda il libro di Giorgio Bocca, ciò mostrerebbe come egli fosse rimasto sotto certi riguardi un uomo del passato. Quel che sinora si è detto mostra come sia vero esattamente il contrario.
Nei timori e nelle suscettibilità dei ceti medi vi era, a suo giudizio, una larga parte di ragione; e perciò la parola “proletariato” non venne mai pronunciata nei primi discorsi e scarsi furono anche gli accenni alla lotta di classe. Fece invece larga parte all’idea di “patria”; e questo suo singolare, apparentemente sconcertante patriottismo deve essere inteso nella sua nota specifica. Togliatti si era formato nella Torino del primo dopoguerra, quando così Gobetti come Gramsci erano persuasi che, con il pensiero crociano e gentiliano, l’Italia avesse raggiunto il livello più alto della cultura mondiale.
Questo testo di Augusto Del Noce è tratto dalla rivista Radici Cristiane. Visita il sito radicicristiane.it