Storie di Sancio, S. Nicola da Tolentino e dei due frati di Zamora

Racconteremo ora quanto accadde a Sancio virtuosissimo re di Spagna, com’è riferito da Giovanni Vasquez. (Cronica, an. 940) – Questo principe, fervente cristiano, morì avvelenato da uno de’ suoi vassalli. Dopo la sua morte la consorte Guda non cessava di pregare e di far pregare pel riposo di quell’anima: fece celebrare un numero immenso di Messe, e per non separarsi da quelle care spoglie, prese il velo nel monastero di Castiglia, dove era stato sepolto il corpo del consorte. Indi a qualche tempo mentre un sabato ella stava pregando con gran fervore la SS. Vergine per la liberazione del defunto, le apparve costui, ma oh Dio! in qual misero stato!
Era vestito in gramaglia, e per cintura portava doppio giro di catene arroventate, e rivolgendosi a Guda, le disse: – Ti ringrazio delle preghiere che fai per me e delle Messe che facesti celebrare in mio suffragio, ma prosegui, te ne prego, in quest’opera caritatevole. Se tu sapessi quanto io soffro faresti certamente assai di più, e il tuo zelo nel sollevare me, che tanto amasti sulla terra e che non hai cessato di amare, aumenterebbe d’assai. Per le viscere della divina misericordia soccorrimi, o Guda, soccorrimi, poiché queste fiamme mi divorano! – La pia Regina incominciò allora a raddoppiare preghiere, digiuni e buone opere affin di sollevare quell’anima si duramente martoriata. Per quaranta giorni non cessò di piangere a calde lacrime per spegnere le fiamme che divoravano il suo povero marito; fece dispensare larghe elemosine ai poveri a nome del defunto, fece celebrare un gran numero di Messe, e a tal fine donò al monastero splendidi arredi.
Passati i quaranta giorni le apparve nuovamente il Re, ma libero dalle catene di fuoco, e invece di gramaglia, ricoperto di un manto candidissimo, nel quale Guda riconobbe con sorpresa quello da lei donato alla chiesa del monastero, e che scomparso all’improvviso – dalla sacristia, si credette involato dai ladri. – Ecco, le disse il Re; grazie a te, io son libero e non ho più nulla a soffrire; sii benedetta per sempre! Persevera nei tuoi pii esercizi, e medita spesso sul rigore delle pene dell’altra vita e sulle gioie del Paradiso, dove io vado ad aspettarti. – A tali detti la Regina, piena di gioia, volle tendere le braccia verso il defunto consorte, ma questo disparve lasciando in mano di lei il mantello, che ella rese alla chiesa cui lo aveva donato la prima volta.
Assai interessante il fatto seguente, che leggiamo nella vita di S. Nicola da Tolentino. Un sabato, di notte, mentre il Santo dormiva, vide in sogno una povera anima del Purgatorio, che lo supplicò di celebrare nella mattina seguente il divin Sacrificio per lei e per molte altre anime che soffrivano in Purgatorio. Il Santo, avendo riconosciuto la voce di chi gli parlava, senza potersi tuttavia ricordare a quale persona a lui nota appartenesse, domandò allo spirito chi fosse. – Io sono il tuo defunto amico Fra Pellegrino da Osimo, che purtroppo sarei andato dannato senza il soccorso della divina misericordia; mi trovo in luogo di pena; ho bisogno del tuo aiuto, ed anche a nome di molte altre anime infelici vengo a supplicarti di voler celebrare per noi domani la santa Messa, dalla quale attendiamo la liberazione, o almeno un gran sollievo dalle nostre pene. – Voglia il Signore applicarti i meriti del suo Sangue prezioso, rispose il Santo, ma in quanto a me, non posso soccorrerti domani col suffragio che mi domandi, perché essendo officiante di settimana, siccome domani è giorno di festa, non potrei celebrare all’altare del coro la Messa dei defunti. –
Vieni, vieni almeno con me, gridò allora il defunto con lacrime e singhiozzi, te ne scongiuro per amor di Dio, vieni a contemplare le nostre sofferenze, e non sarai più sì crudele da negarmi il favore che ti domando: so che il tuo cuore è troppo buono perché tu possa più oltre lasciarci in tante pene. Parve allora al Santo di essere trasportato in Purgatorio, dove vide una vasta pianura, nella quale una moltitudine di anime di tutte le età e condizioni erano tormentate con vari ed atroci supplizi. E qui bisognerebbe la penna dell’immortale Alighieri, del cantore sublime dell’Inferno e del Purgatorio per riferire i tormenti indicibili da cui vide il Santo afflitte quelle povere anime, e forse l’immaginazione stessa di Dante impallidirebbe dinanzi a tanto spettacolo di dolore. Non ci proveremo quindi a farlo, ma diremo solo che quegli spiriti penanti imploravano in coro coi gesti e colla voce gemente l’aiuto di san Nicola, al quale Fra Pellegrino disse: – Ecco, come vedi, la situazione di quelli ché mi hanno a te inviato: essendo tu caro al Signore, confidiamo che nulla rifiuterà egli all’oblazione del santo Sacrificio compiuta dalle tue mani, e siamo sicuri che la divina misericordia ci libererà.
Sparita in tal modo l’apparizione, il Santo non poté frenare le lacrime alla considerazione di sì straziante spettacolo, e postosi in preghiera per tutto il resto della notte, appena albeggiato corse a trovare il priore per raccontargli l’accaduto. Questi, penetrato dalla descrizione di quelle pene, lo dispensò non solo per quel giorno, ma per l’intera settimana dall’ufficio di ebdomadario, onde potesse durante quel tempo offrire il divin Sacrificio a sollievo di quelle povere anime. Il Santo in quel giorno e per tutta la settimana celebrò la Messa con straordinario fervore, dedicandosi inoltre giorno e notte alla pratica delle virtù e delle penitenze più austere, prolungando le sue veglie e le sue orazioni, digiunando a pane ed acqua, martoriando il suo corpo con discipline e portando una catena di ferro strettamente serrata ai fianchi.
Al termine di quei sette giorni, il Santo ebbe la consolazione di vedersi nuovamente comparire Fra Pellegrino, non più in mezzo a quelle orribili torture, ma ricoperto di una veste candidissima e circondato di splendori celesti, in mezzo ai quali gioivano molte altre anime benedette, che tutte salutarono il Santo, chiamandolo loro liberatore, e cantando mentre salivano al cielo: Salvasti nos de af fligentibus nos, et odientes nos confudisti! (Ps. 43, 7) Un altro fatto assai impressionante si legge nelle cronache domenicane a proposito del fuoco del Purgatorio (v. Ferdinando di Castiglia, Storia di S. Domenico, 2a parte, libro I, cap. a3).
A Zamora, città del regno di Leon in Spagna, viveva in un convento di Domenicani un buon religioso, legato in santa amicizia ad un Francescano, uomo anch’egli di esimia virtù. Un giorno in cui i due frati s’intrattenevano fra loro di cose spirituali, si promisero scambievolmente che il primo che fosse morto sarebbe apparso all’altro, se cosa Dio fosse piaciuto, per informarlo della sarte toccatagli nell’altro mondo.
Morì per primo il Francescano e, fedele alla sua promessa, apparve un giorno al religioso Domenicano mentre stava preparando il refettorio, e dopo averlo salutato con straordinaria benevolenza, gli disse di essere bensì salvo, ma che gli rimaneva ancora molto da soffrire per una infinità di piccoli falli, dei quali non si era emendato durante la vita. Poi soggiunse: – Niente v’è sulla terra che possa dare un’idea delle mie pene. – E perché l’amico ne avesse una prova, il defunto stese la destra sulla tavola del refettorio, dove l’impronta rimase così profonda, quasi vi avessero applicato sopra un ferro rovente. Quella tavola si conservò a Zamora fino al termine del ‘700, epoca nella quale le rivoluzioni politiche la fecero sparire insieme con tanti altri ricordi di pietà dei quali abbondava l’Europa.