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Santa Maria della Neve

Tesori d'Italia14 Aprile 2018
Testo dell'audio

Pisogne è ancora oggi un piccolo abitato all’estremità settentrionale del Lago d’Iseo. Da sempre snodo stradale e commerciale importantissimo per i contatti tra terra e lago, è collocato all’imbocco della Valle Camonica. Ai margini del paese, lungo quella Contrada Longa che ricalcava il tracciato della via Antica Valeriana, sorse nella seconda metà del Quattrocento la chiesa di Santa Maria della Neve. La sua costruzione fu un atto di volontà civica, testimoniato dallo stemma locale con la torre episcopale e la sigla «VP» (Vicinia Pisonearum), scolpiti nel capitello di una lesena all’interno dell’edificio. Mantenne una certa indipendenza dal vescovo di Brescia e fu con tutta probabilità inizialmente retta da una confraternita di Flagellanti o Disciplini, che facevano della penitenza e della meditazione sulla Passione e Morte di Cristo uno stile di vita.

A fine Cinquecento fu dotata per ordine di Carlo Borromeo di un convento retto dagli Agostiniani, cacciati dal Governo della Repubblica Veneta nel 1789. Il complesso pervenne prima ad una famiglia, poi alla Vicinia e, decaduta questa, al Comune, che lo donò alla Congregazione di Carità per farne un ospedale, oggi trasformato in residenza sanitaria assistenziale per anziani.

La chiesa oggi purtroppo è sconsacrata, ma il suo fortissimo senso sacro, trasmesso attraverso la potenza delle immagini, attira ancora visitatori da tutto il mondo.

Una sola navata, tre campatelle con volte a crociera costolonate, una facciata a capanna: ecco la struttura di Santa Maria della Neve, che esternamente appare semplice e discreta, nel tipico stile di una quattrocentesca chiesa lombarda di provincia, in bilico tra retaggi medievali, goticismi e prime suggestioni rinascimentali.

La facciata è coronata da archetti pensili, incorniciata da due lesene e diaframmata da un portale in pietra simona, un’arenaria rossastra che deve il suo nome a Simoni di Gorzone, la frazione di Darfo Boario Terme da cui veniva estratto questo materiale.

Le candelabre laterali e la statua della Madonna col Bambino affiancata da due angeli, dipinti nella lunetta sopra l’architrave con al centro il monogramma bernardiniano, ci parlano di un Rinascimento un poco timido, acerbo, dal sapore tutto montanaro.

Originariamente la facciata era dipinta e qualche busto di Profeti e Antenati di Cristo si scorge ancora al di sotto degli archetti pensili; un Trionfo della Morte, oggi scomparso ma noto attraverso disegni del 1846, la connotava drammaticamente con immagini di scheletri coronati, che scagliavano dardi verso ecclesiastici recanti vasi ricolmi d’oro, mentre non riuscivano a colpire altri personaggi orientati verso Cristo.

Il lato nord ospita invece una vera rarità iconografica: una Madonna dei Mestieri, esempio di pittura devozionale dove all’immagine della Vergine erano affiancati oggetti di vita quotidiana contadina e lacustre.

Correva presumibilmente il 1532 quando gli «homeni da Pisogni» affidarono l’incarico di decorare il santuario di Santa Maria della Neve al brescianissimo Girolamo Romani detto il Romanino, di ritorno da Trento, dove aveva affrescato il Palazzo Magno del principe vescovo Bernardo Clesio, il Castello del Buonconsiglio. Nel 1534 il pittore richiedeva la riscossione del proprio compenso, segnalandoci quindi il compimento dell’opera.

Con questo lavoro si aprì la ‘fase camuna’ di questo artista, che lo avrebbe portato, di lì a poco, nelle vicine Breno e Bienno, in un percorso artistico e biografico, che spesso è stato letto come un ‘ritirarsi dal mondo’, in valle, tra i semplici, dove la sua arte espressiva e vernacolare potesse essere meglio compresa. Ma sarebbe scorretto liquidare così questa terra, che nel Cinquecento invece appariva vitale e tutt’altro che arretrata, sia economicamente che culturalmente.

Centro di scambio di materie prime e prodotti finiti, Pisogne vedeva circolare nelle sue strade non solo gli oggetti, ma anche le persone e le loro idee. E in tempo di terremoti religiosi come quello luterano, si avvertì sicuramente la necessità di andare verso il popolo per ricondurlo alle verità cristiane, di entrare in comunicazione con la gente e la loro fede per ribadire la retta via. Anche utilizzando l’arte.

All’arrivo di Romanino, al corpo della chiesa risultavano addossati esternamente due portici, sui lati nord e sud, e una cappella al termine di quest’ultimo, mentre erano stati tamponati i finestroni sulla muratura esterna. L’interno sembra fosse originariamente bianco, fatta salva l’area presbiteriale, che ospitava pitture votive e che oggi mostra alcune sinopie abbozzate dall’artista bresciano, nonché suoi affreschi strappati dalla sacrestia e qui ricollocati.

Così, Romanino trovò ampio spazio per dare vita ad uno dei più straordinari cicli pittorici della sua carriera, che assegnò a Santa Maria l’appellativo di «Cappella Sistina dei poveri».

Nessuna scopiazzatura provinciale, nessuna pallida ma presuntuosa imitazione del genio michelangiolesco: l’ “irregolare”, “anticlassico” Romanino mise in scena un ciclo ispirato alla Passione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore con il suo linguaggio, maturato tra atmosfere veneziane e severità nordiche, intriso di umori dialettali e forte espressività.

E allora si nota, sull’arco santo che introduce al presbiterio, in alto, il Padreterno e l’Annunciazione; più in basso, a far da pala a due altari successivamente eliminati, la Discesa dello Spirito Santo e la Deposizione al Sepolcro. Le pareti laterali ospitano grandi scene che occupano la muratura delle arcate acute, e, più sotto, altri episodi più piccoli: tutte le immagini attingono a momenti salienti della Passione, Morte e Resurrezione di Cristo, culminanti nella grandiosa Crocifissione, estesa in controfacciata, a fungere da climax patetico dell’intero ciclo.

Sollevando lo sguardo, si nota invece una finta struttura a cielo aperto sfondare illusionisticamente lo spazio delle volte a crociera, con Sibille e Profeti che si sporgono verso lo spettatore con le loro pose quasi paradossali, nel tentativo di instaurare un dialogo più colto e sostanziato.

Eppure, a voler ben guardare le storie cristologiche sottostanti, emerge un programma figurativo privo di un ordine strettamente consequenziale.

Punto di partenza di questa narrazione è Cristo nell’Orto degli Ulivi, nell’angolo a sinistra dell’arco santo; appaiono poi, in senso antiorario, l’Ecce Homo, la Salita al Calvario, la Crocifissione, la Resurrezione, la Discesa al Limbo e l’Ascensione. Poi, più sotto, sempre in senso antiorario dall’angolo a sinistra dell’arco santo: la Cena in casa del Fariseo, Cristo davanti a Pilato, La Flagellazione, l’Incoronazione di Spine, l’Ultima Cena, la Lavanda dei piedi e l’Ingresso in Gerusalemme.

Un interessante approfondimento iconografico e iconologico a firma di Bruno Passamani connette queste immagini così intrise di ‘realtà’ a pratiche devozionali diffusissime in quelle terre fin dai secoli più remoti del Medioevo, legate a quelle sacre rappresentazioni, che attraverso la lettura, la declamazione e la messa in scena ottemperavano all’intento catechetico e didattico più verace della dottrina cristiana.

Allora, sarà possibile leggere il ‘rimescolamento narrativo’ di Romanino, dividendo le tre campate dell’aula di Santa Maria della Neve in tre nuclei distinti in un percorso tematico che parte dall’arco santo, luogo della predicazione, e attraversa lo spazio della chiesetta fino alla controfacciata. Un percorso accompagnato e ‘vegliato’ da Sibille, Profeti e Veggenti della volta, con i loro cartigli talora incomprensibili (probabile allusione all’oscurità delle loro predizioni), talaltra leggibili con iscrizioni e rimandi al tema della Croce.

La prima tappa, con arco santo e prima campata, alluderebbe ai temi dell’annuncio e dell’attesa, abbracciando Annunciazione, Pentecoste, Deposizione, Ingresso a Gerusalemme, Cristo nell’Orto degli Ulivi; la seconda campata rappresenterebbe la caduta dell’umanità nel disordine religioso (o per usare un tema allora scottante, l’eresia) con l‘Ecce Homo, Pilato, la Discesa al Limbo; la terza, infine, farebbe capo al tema dell’esaltazione della Croce come strumento di redenzione dal peccato attraverso la Passione di Cristo, con scene che vanno dalla Cena in casa del Fariseo alla Resurrezione.

Maestoso fulcro percettivo e tematico di tutto il sistema iconografico è quindi la Crocifissione, nella quale Romanino trasfuse il suo spirito più genuino, il suo genio più sanguigno, la sua vena più espressionista: ecco personaggi da taverna, volti grotteschi, cavalli imbizzarriti, folle accalcate intorno al Salvatore in una scena concitata, piena di violenza e pathos. Un luogo figurato, biblico, in cui però la gente comune poteva riconoscersi. Grazie al quale poteva  avvicinarsi al Mistero della Morte e Resurrezione di Cristo. Grazie al quale poteva partecipare al progetto di salvezza.

 

Questo testo di Anna Adami è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. E’ possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it

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