San Charbel e la Chiesa nel mondo

“Nel mondo, ma non del mondo” è una formula tradizionale per capire come i cristiani sono chiamati a vivere la quotidianità, che purtroppo viene facilmente fraintesa. Qualcuno, infatti, vorrebbe che i cristiani e la Chiesa fossero “del mondo” al punto che tra “vita in Cristo” e “mondanità” non vi fosse più alcuna distinzione; altri, invece, sembrano proporre un rifiuto totale di ciò che non è spirituale, una disincarnazione che nulla ha a che fare con il Vangelo e la Chiesa.
Il problema del rapporto con il “mondo” fu un tema centrale anche del Concilio Ecumenico Vaticano II: infatti, il suo orientamento fu proprio quello di un “aggiornamento” della Chiesa per un più utile contatto con il mondo. Il documento simbolo di questa volontà è la Costituzione pastorale Gaudium et Spes, un testo che non ha mancato, e non manca, di sollevare discussioni e controversie. Il linguaggio utilizzato, quantomeno inusuale, può effettivamente dare luogo a una serie di interpretazioni ambigue del testo; ma d’altra parte c’è stata la precisa volontà di esprimersi così, nel tentativo, forse troppo ottimistico, di andare incontro al “mondo”.
I problemi interpretativi sollevati da un testo come Gaudium et Spes non sono banali, ma una coincidenza piuttosto curiosa può aiutarci a non smarrire la strada. Il documento, infatti, viene promulgato il 7 dicembre 1965, quattro giorni dopo una cerimonia di beatificazione – presieduta da Paolo VI – che può considerarsi quasi un ammonimento: mi riferisco a quella di Charbel Makhlouf (1828-1898), monaco e presbitero libanese dell’Ordine Antoniano Maronita. 31Il tipo di insegnamento a cui si fa riferimento emerge con chiarezza dalla vita di san Charbel (proclamato santo nel 1977), un avvertimento che è una sorta di “nota previa” alla stessa Gaudium et Spes. San Charbel propone un modello di santità che alcuni vorrebbero sorpassata. La sua vita, infatti, affonda le radici nel monachesimo orientale e trae linfa dai Padri del deserto.
Circa venti anni di vita monastica e altri venti di vita eremitica, nel più totale silenzio, con il tempo scandito dalla liturgia e dal lavoro, sottoposto a rigorosi digiuni, lontano da ogni comodità e da qualsivoglia “mondanità”: questa è stata la vita di san Charbel. Dopo la sua morte si sono verificati una serie impressionante di fenomeni straordinari: una luce si irradiava dalla sua tomba; il corpo restava caldo e flessibile; il cadavere trasudava copiose quantità di un liquido mai ben identificato; nel 1950, procedendo ad una nuova esumazione, si registrarono nel giro di pochi mesi ben 350 casi di guarigioni, molte riportate anche dai media dell’epoca. Se il miracolo è la “conferma divina” alla santità, allora non possiamo che rimanere stupiti di fronte a questa beatificazione avvenuta proprio alla fine del Concilio, esattamente tre giorni prima della promulgazione della Gaudium et Spes. Nulla avviene per caso nei disegni della Provvidenza.
Cosa ci ricorda allora san Charbel? Anche se non tutti sono chiamati a questa specifica via di perfezione, rimane un ammonimento incontrovertibile e valido per tutti i seguaci di Cristo che vivono “nel mondo, ma non sono del mondo”: il primato di Dio. Questa è la prospettiva con cui dobbiamo intendere il documento del Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo: scienza, cultura, matrimonio, famiglia, politica, lavoro, pace, economia: tutto è importante, ma tutto è relativo a Colui che è, che era e che viene. Dimenticarsi questo, insegna san Charbel, è grave mancanza.
Questo testo di Lorenzo Bertocchi è tratto da Radici Cristiane. Visita radicicristiane.it