< Torna alla categoria

Elementi della moralità oggettiva: oggetto, intenzione e circostanze

Teologia Morale11 Aprile 2023
Testo dell'audio

Cari ascoltatori bentrovati, oggi entriamo nel vivo delle fonti da cui si deriva la moralità degli atti umani.

 

OGGETTO, INTENZIONE, CIRCOSTANZE – Gli elementi di cui consta la moralità oggettiva, in quanto possono essere in rapporto di conformità o no alla legge morale, sono essenzialmente tre: l’oggetto, le circostanze e il fine (chiamati anche principii o fonti della moralità).

 

  1. L’oggetto. Abbiamo fatto notare che l’oggetto morale è ciò che l’atto produce direttamente per se stesso, in quanto ciò è conosciuto dalla ragione come conforme o no alla legge morale. In tal senso l’elemosina, per esempio, considerata nel suo aspetto formale di soccorso ad infelici, è una cosa moralmente buona.

Quest’oggetto è la sorgente prima della moralità. Infatti come una cosa naturale è specificata dalla sua forma, così l’azione mutua la sua forma dall’oggetto, e il movimento dal suo termine. Ecco perché l’atto umano trae la sua moralità innanzi tutto dal suo oggetto (considerato formalmente sotto l’aspetto di cosa conveniente).

 

  1. Le circostanze. Per circostanze intendiamo l’insieme degli elementi accidentali dell’atto. Ne contiamo sette tipi: in relazione alla condizione particolare del soggetto dell’atto (quis – chi), alla natura dell’oggetto (quid – cosa), al luogo in cui si svolge l’azione (ubi –  dove), ai mezzi impiegati (quibus auxiliis – con che cosa), al fine secondario (cur), al comportamento interiore o esteriore dell’agente (quomodo – in che modo), e infine al tempo e alla durata dell’atto (quando).

Le circostanze, come tali, essendo dei puri accidenti, non sono capaci di specificare un atto morale: ma le cose vanno diversamente quando la circostanza non è più un puro accidente, indipendente dall’intenzione dell’agente morale, ma diventa una condizione particolare (e talvolta principale) dell’oggetto medesimo, implicando un’intenzione speciale dell’agente sia in favore, sia contro l’ordine della ragione. In questo caso la circostanza ha valore di oggetto, specifica l’atto e può mutarne la natura

 

Esempio: l’atto dell’uccidere prende la sua forma dalla circostanza dell’innocenza o meno di chi viene ucciso. Nel primo caso si ha l’uccisione di un innocente e dunque un assassinio, contro l’ordine della ragione. Nel secondo caso si ha l’uccisione di un ingiusto aggressore, che si configura come legittima difesa e dunque moralmente lecita.

 

Altro esempio è l’atto di non dire la verità, a seconda della circostanza dell’innocenza o meno della persona alla quale parlo. Nel caso stia parlando ad una persona innocente, l’atto si configura come menzogna, moralmente illecita. Nel caso stia parlando ad ingiusto aggressore, compio un falsiloquio, ovvero una difesa realizzata tramite inganno dell’ingiusto aggressore (questo è accaduto per tutti i cattolici che nascosero gli ebrei e li difesero col falsiloquio dai generali nazisti che li interrogavano sulla loro posizione). 

 

La circostanza accidentale d’altro canto può essere aggravante (derubare un povero) o attenuante (rubare per nutrire dei fanciulli affamati).


  • Il fine. Il fine qui considerato non è quello immanente all’atto esteriore (finis operis), che si confonde con l’oggetto stesso, ma il fine a cui il soggetto tende interiormente mediante la sua intenzione (finis operantis). Questo fine soggettivo o intenzione può essere differente dal fine oggettivo: si può, ad esempio, fare l’elemosina con un fine diverso da quello di soccorrere i bisognosi (che è il fine oggettivo dell’elemosina, il solo capace di conferirle valore morale), per ostentazione. È necessario, pertanto, distinguere un atto (o oggetto) interiore e un atto (o oggetto) esteriore, e osservare che il fine è propriamente l’oggetto dell’atto interiore, mentre l’atto esteriore ha per oggetto ciò appunto che costituisce la sua ragion d’essere; e come un atto esteriore è specificato dall’oggetto sul quale si volge, così l’atto interiore sarà specificato dal suo proprio fine. Diremo dunque che il valore morale degli atti umani deriva materialmente dall’oggetto dell’atto esteriore e formalmente dal fine o intenzione da cui essi procedono.


Ben si vede qual è l’importanza dell’intenzione nella moralità. Il fine dell’agente (finis operantis) è nello stesso tempo la causa prima e il termine ultimo della sua azione.

L’intenzione abbraccia dunque tutto l’atto, poiché lo fa nascere e lo compie. D’altra parte, è in virtù dell’intenzione che l’atto diventa umano; se non ci fosse un’intenzione, ci potrebbero essere e l’oggetto e le circostanze, ma non ci sarebbe l’atto morale: la moralità dipende soprattutto dall’intenzione. È quello che si tocca con mano paragonando i due atti, quello interiore e quello esteriore, di cui si compongono gli atti umani (almeno quelli misti): l’atto interiore è interamente nella volontà e nell’intenzione, mentre l’atto esteriore è piuttosto nell’opera materiale, nei rapporti sensibili dell’agente con l’oggetto e le circostanze. È dunque l’intenzione che specifica l’atto interiore, il quale, a sua volta, conferisce la sua qualità morale all’atto esteriore e così tutta la moralità da ultimo dipende dall’intenzione.

 

L’ATTO CONCRETO – Da quanto si è detto prima consegue che un atto concreto non sarà moralmente buono se non è conforme in tutti i suoi elementi (oggetto, intenzione e circostanze) alla regola della moralità (Bonum ex integra causa): se uno solo dei suoi elementi è cattivo, l’atto stesso diventa moralmente cattivo (Malum ex quocumque defectu).

Si potrà giudicare ciò non coerente con l’affermato primato dell’intenzione; in realtà, dal momento in cui tutto l’atto è animato dall’intenzione, questa non può restare buona se l’oggetto o le circostanze hanno qualcosa di essenzialmente cattivo. L’intenzione guarda soprattutto allo scopo, ma non può fare astrazione dai mezzi impiegati: anch’essi sono infatti voluti, benché subordinatamente. Il fine non può sempre giustificarli: esso giustifica mezzi in se stessi indifferenti, ma non atti intrinsecamente cattivi. Non è mai permesso fare il male per conseguire il bene; questo è il senso dell’adagio: «il fine non giustifica i mezzi».

 

Mausbach: Rispetto all’atto oggettivamente cattivo si stabilisce il seguente principio: Ciò che è cattivo rispetto all’oggetto, ciò che intimamente contrasta con la moralità, rimane cattivo, anche quando le circostanze e il fine sono buoni. Già S. Paolo ricorda come un principio infame: “Facciamo il male perché nascano i beni” (Rom. 3, 8). S. Agostino scrive: “Quello che evidentemente sono peccati non possono commettersi per nessun miraggio di causa buona, per nessun fine quasi buono, per nessuna intenzione quasi buona” (Contra mendac. N. 18). S. Tommaso ripete ed insiste: “Quelle azioni che di per sé sono cattive per nessun fine buono si possono compiere” (S. Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 88, a. 6, ad 3).

 

GLI ATTI INDIFFERENTI – Ora ci domandiamo, possono esserci atti moralmente indifferenti, cioè senza qualità morale buona o cattiva? Se consideriamo gli atti umani in astratto e perciò limitatamente al loro oggetto, è evidente che vi sono molti atti in se stessi indifferenti, come camminare, leggere, scrivere, parlare, dormire, ecc. Ma le cose cambiano se ci mettiamo da un punto di vista concreto, perché in questo caso ogni atto umano è accompagnato da circostanze determinate e, soprattutto, comandato da un’intenzione; e le une e l’altra lo qualificano necessariamente buono o cattivo, secondo che sia attualmente o virtualmente orientato verso il fine ultimo, cioè praticamente compreso in un processo finalistico conforme alla regola morale.

 

Nel prossimo podcast cercheremo di fare degli esempi di atti umani sulla base di questi principii della moralità degli atti per delineare meglio quanto ci siamo detti oggi.

Da Facebook