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NOVARA – Messe Vetus Ordo azzerate, la rivolta dei fedeli

Zoom: una notizia alla settimana21 Novembre 2022
Testo dell'audio

Nel Motu Proprio Traditionis Custodes la condanna è scritta: la liturgia tradizionale deve sparire. Si può essere accomodanti, ma solo con e per un obiettivo: «provvedere da una parte al bene di quanti si sono radicati nella forma celebrativa precedente e hanno bisogno di tempo per ritornare» al Novus Ordo Missæ». Come? Innanzi tutto, abrogando tutte le norme, le istruzioni, le concessioni e le consuetudini precedenti; poi, ritenendo «i libri liturgici promulgati» da Paolo VI e da Giovanni Paolo II quale «unica espressione della lex orandi del Rito Romano» (art. 1 della Traditionis Custodes); infine, vietando la costituzione di nuovi gruppi Vetus Ordo.

Si tratta di un atto assolutamente arbitrario, avendo ribadito il Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI come il rito tradizionale non sia mai stato abrogato e come la sua celebrazione rappresenti un diritto soggettivo del singolo fedele. Ma in questa sede il punto non è questo: a far problema, qui, è quanto avvenuto a Novara. Perché un Vescovo, Codice di Diritto Canonico alla mano, può derogare rispetto alla Traditionis Custodes. Può, prosaicamente parlando, far finta di niente, volgere lo sguardo dall’altra parte, tollerare, assecondare, cercare un accordo, un compromesso, come è avvenuto in tante Diocesi. Oppure può cercare lo scontro e cavalcare l’onda della “guerra” liturgica riapertasi proprio dopo il Motu Proprio di papa Francesco: è quanto accaduto nella chiesa di Vocogno e nella cappella di san Biagio, nelle valli Ossolane, a seguito della decisione del vescovo di Novara, mons. Franco Giulio Brambilla, di sospendervi la celebrazione della liturgia tridentina. Ligia e pedissequa obbedienza alle pressioni vaticane? Conformismo, piaggeria o convinto e autoritario accanimento contro qualsiasi cosa odori d’incenso preconciliare? Qualunque sentimento l’abbia spinto, di certo v’è solo il risultato ovvero lo sconforto profondo e la grande amarezza provocati in migliaia di fedeli e negli stessi sacerdoti legati al rito tradizionale, calpestati nei loro diritti e soprattutto nella loro sensibilità liturgica. Dov’è, in tutto questo, quella custodia del «depositum fidei», che dovrebbe essere affidata al Vescovo? Dov’è la pretesa Chiesa della “misericordia”? Dov’è la Chiesa “inclusiva”? Nella Chiesa “in uscita” c’è posto, dunque, per Pachamama e non per un rito, che risale alla Tradizione Apostolica e che si è formato nel corso dei secoli?

È sintetizzabile in queste domande il senso delle mail e delle lettere pervenuteci in redazione, scritte da cattolici confusi, disorientati, sconcertati, sentitisi puniti per il solo fatto di credere. Delle loro storie personali, spesso toccanti, siamo giunti a conoscenza proprio grazie a questi loro messaggi. Come nel caso di un cittadino svedese, spesso residente per lunghi periodi a Toceno, dove ha casa: «Per questo sono un fedele della chiesa di S. Caterina a Vocogno – ha scritto – Non accetto la decisione di rimuovere Don Alberto e don Stefano. Non la accetterò mai!». Dopo aver definito «ridicolo» che la gerarchia cattolica sia dedita a perseguitare «i sacerdoti, che obbediscono a Dio», ha raccontato la sua vicenda umana e spirituale: «Mi sono liberato dal protestantesimo grazie alla Messa tradizionale ed ora dovrei trovare la stessa cosa in Italia? So bene infatti che la nuova Messa è uguale alla cena protestante»…

A mons. Brambilla sono già stati rivolti appelli da parte dei fedeli ed indirizzate lettere, tutte – lamentano i mittenti – rimaste senza risposta: «Siamo una comunità, che da tanti anni frequenta la chiesa di Vocogno e la cappella di Domodossola. Dalla prima domenica di Avvento ci ritroveremo praticamente per strada, in quanto il Vescovo ha proibito la celebrazione delle Messe. Il tutto in nome dell’obbedienza al Papa. Ma non è proprio il Pontefice a parlare spesso di una Chiesa inclusiva, che accoglie? Questo non vale anche per noi? Continueremo a difendere i nostri parroci, finché il Vescovo non tornerà sui propri passi. Ha l’autorità per farlo e per questo ci aspettiamo un gesto di vera carità».

V’è poi una quarantenne milanese, felicemente sposata e mamma di sei bambini, mentre il settimo è «in arrivo». Racconta «quanto per me e per la mia numerosa famiglia la frequentazione delle S. Messe celebrate in rito antico e delle catechesi abbiano portato ad una crescita nella Fede, ravvivato l’amore alla S. Madre Chiesa, oltre che enormi grazie a tutti noi. Tutte cose, di cui – credo – un Vescovo dovrebbe rallegrarsi». E pone anche una questione di metodo: «Delle decisioni di Sua Eccellenza sulle sorti delle due comunità abbiamo appreso indirettamente dalla stampa. Perché?». Da qui la domanda: perché «quella Chiesa, che oggi parla così tanto di incontro e di accoglienza», in questo caso ha deciso «a tavolino», restando «indifferente alle preghiere del suo gregge»? Già, perché? «Perché non ci può essere un posto per noi?». E chiede anche ai confratelli dei due sacerdoti “sollevati” dall’incarico, dove sia «quella fraternità, quella solidarietà e quella carità, di cui spesso si sente parlare nelle omelie». Già, dov’è? Da qui l’appello accorato al Vescovo: «Non interrompa ciò che Dio ha cominciato!». Parole, che fanno riflettere… Come pure fa riflettere la testimonianza di una ragazzina, che ha scritto, con grafia ancora incerta e scolastica, concetti viceversa ben forti e saldi: «Entro in chiesa a volte con l’anima spenta, ma lì, sempre, sento rinascere in me l’amore per Cristo Gesù. In quella chiesa la Sua presenza c’è, forte, viva, perché lì c’è un sacerdote che prega e vive santamente. Perché, perché togliere a questi sacerdoti e a noi fedeli la nostra chiesa, così cara e santa?». C’è poi l’appello del piccolo chierichetto, che serve alla Messa di don Alberto: la decisione di togliergli la chiesa, lo dice chiaramente, «mi sembra senza senso. La chiesa di domenica è spesso così piena che la gente deve rimanere in piedi. Significa distruggere moltissime anime, che hanno ancora bisogno di cure, disperdere e abbandonare un gregge intero in balia di lupi feroci. Una cosa inaudita».

È interessante notare come, per anagrafe, sia impossibile bollare tali richieste come nostalgie preconciliari o forme di archeologismo liturgico.

Il miglior commento, allora, di fronte a queste ed altre storie personali, che sono poi vere e proprie testimonianze di fede, nonché di fronte a questa vicenda tanto triste, si trova nelle pagine scritte dal card. Robert Sarah nel suo libro Si fa sera e il giorno ormai volge al declino: «La Chiesa muore perché i pastori hanno paura di parlare con verità e chiarezza. Abbiamo paura dei media, dell’opinione pubblica, dei nostri confratelli! Ma il buon pastore dona la vita per le sue pecore. Tra non molto sarò chiamato al cospetto del Giudice Eterno. Se non vi trasmetto la verità che ho ricevuto, che cosa gli dirò? Noi Vescovi dovremmo tremare al pensiero dei nostri silenzi colpevoli, dei nostri silenzi conniventi, dei nostri silenzi condiscendenti con il mondo». E di questo, pertanto, complici…

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