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Monteverdi. Degno d’un chiaro sol

Arte e Cultura13 Aprile 2020
Testo dell'audio

Claudio Giovanni Antonio Monteverdi nacque a Cremona nel maggio 1567 da agiata ed istruita famiglia; il padre, Baldassarre Monteverdi, era un noto medico. Iniziato alla carriera musicale dal maestro di cappella Marc’Antonio Ingegneri, dimostrò precocemente il suo talento componendo a soli quindici anni le Sacrae Cantinculae, pregevole raccolta di canti sacri a tre voci. Nell’ambito della musica profana esordì con un Libro di Madrigali a cinque voci, che arriverà a comprendere nove volumi. A 22 anni fece quello che oggi definiremmo un importante scatto di carriera, diventando principale violista e poi compositore alla corte di Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova, dedicatario dei suoi primi successi.

Lo stile di Monteverdi, arricchito dalle influenze del maestro fiammingo Jacques de Wert, raggiunse il suo apice insuperato con l’Orfeo, musicato su libretto di Alessandro Striggio il Giovane (1573 – 1630) in occasione del carnevale di corte del 1607. Per comprendere l’inenarrabile rilevanza di quest’opera, occorre menzionare che fu il primo capolavoro mondiale del melodramma, genere che all’epoca contava a malapena qualche precursore con l’Euridice del fiorentino Jacopo Peri e le commedie madrigalesche.

Non meno degno di nota, risale al 1610 il sontuoso Vespro della Beata Vergine; mentre risulta ormai perduta, eccetto un piccolo ma significativo brano, l’opera Arianna del 1608, su libretto di Ottavio Rinuccini. L’idillio mantovano finì con la morte di Vincenzo I e la successione al trono del primogenito Francesco IV, che, per sopperire alle difficoltà finanziarie, licenziò gran parte degli artisti di corte, fra cui Monteverdi.

Questi fece un breve ritorno a Cremona per poi trasferirsi definitivamente a Venezia, dove sarebbe subentrato alla prestigiosa direzione del coro della Basilica di San Marco. Gli anni veneziani furono certamente tra i più tranquilli: protagonista indiscusso fra i maestri della Serenissima, si dedicò tanto alla produzione laica quanto a quella religiosa, potendo contare su uno stipendio di prim’ordine. Compose una Messa da Cappella a quattro Voci per l’inaugurazione della Basilica di Santa Maria della Salute (1631) e sappiamo che poco dopo si fece ordinare sacerdote, pare per attenuare le inquietudini spirituali di cui soffrì a seguito della morte della moglie, avvenuta nel 1607.

Monteverdi ebbe la rara fortuna di godere del proprio successo in vita, ma non fu esente da critiche. Il canonico Giovanni Maria Artusi, musicologo, allievo del più celebre Gioseffo Zarlino, pubblicò un trattato in due parti sulle Imperfettioni della Moderna Musica, in cui si citavano ed attaccavano direttamente composizioni tratte dai Libri di Madrigali, da lui ritenute «licenziose» e «aspre all’udito», perché violavano le regole del contrappunto rese ormai convenzionali dai più grandi autori del XVI secolo (si pensi a Pierluigi da Palestrina).

La risposta non tardò a tuonare dalla penna del compositore, sostenuto per l’occasione dall’erudito fratello Giulio Cesare Monteverdi: nell’introduzione al V Libro di Madrigali fu proposto un innovativo ripensamento della teoria musicale, distinguendo una prima prattica, codificata sulla fluidità e l’armonia tra le voci, e una seconda prattica, più libera e moderna, in cui l’uso delle dissonanze (ovvero l’accostamento di tonalità fra loro discordanti) è – o era? – funzionale all’enfasi delle voci, delle emozioni, dei recitativi.

Il contributo di Monteverdi al nascente genere del melodramma appare notevolmente più significativo di quanto la critica abbia sinora sottolineato, qualora si consideri il carattere occasionale, quasi sperimentale, delle prime composizioni della Camerata de’ Bardi di Firenze. Tentativi che, com’è noto, erano finalizzati al recupero “filologico” dell’antica tragedia greca secondo le intuizioni di teorici di prim’ordine, fra i quali si ricorda Vincenzo Galilei, erudito musicologo e filologo, padre del più celebre Galileo.

Frutto degli intensi simposi della Camerata fu l’elaborazione del recitar cantando, peculiare tecnica attraverso cui si poteva adattare la cadenza del parlato alla melodia, da sempre ritenuta componente necessaria e predominante del genere, ma forse non sufficiente, se si considerano le incertezze stilistiche, ma soprattutto la rigidità e talvolta la monotonia degli schemi compositivi, che ancora oscurano la lucentezza delle perle dei geni fiorentini. Le figure stilizzate dei pastori, i timidi moti didascalici dei protagonisti e le scene embrionali nel loro contesto, nonché la precaria, talvolta indefinita gerarchia fra voci, cori e strumenti, rendevano queste opere oggetto di una distaccata curiosità erudita, anziché interessare un coinvolgimento estetico totale come avviene nei capolavori dell’arte.

Occorreva un coraggioso ripensamento della teoria musicale, che ne fluidificasse la stesura rendendola al contempo libera dalle stringenti regole sull’uso del contrappunto, per mettere in risalto la componente dinamica della scena e permettere alle voci di distinguersi significativamente dall’accompagnamento, quale si avrà di lì a pochi anni con le robuste innovazioni della “seconda pratica” monteverdiana.

Nel suo capolavoro, la multiforme varietà degli stimoli riesce a condurre lo spettatore, giocando con la passività e il coinvolgimento del suo ruolo, a confrontarsi con la pienezza emotiva delle dissonanze unita alla profondità dei versi; vediamo emergere i caratteri, delinearsi una struttura complessiva divisa in atti e stagliarsi nella continuità del flusso melodico alcuni passaggi lirici, quasi sospesi, che prenderanno nella successiva elaborazione il nome di “arie”. La prima forma compiuta del melodramma si ha, nella sua prorompente originalità, solo con l’Orfeo (1607), rispetto al quale le opere del Peri andrebbero ricondotte al ruolo di proto-melodrammi o drammi madrigaleschi, mutuando la definizione che il padre omonimo di Alessandro Striggio volle affidare alle proprie commedie madrigalesche.

Un ridimensionamento tout court artistico, non certo intellettuale, dei precursori fiorentini coincide in questo caso con una riscoperta del valore universalmente cristiano dell’Opera mantovana e dell’intero genere: non più funzionale al recupero di un antico gusto pagano, filosoficamente conforme a un certo filone gnostico dell’umanesimo, ma sublime e innovativo vertice della stagione culturale del barocco della Controriforma, epoca troppo spesso grossolanamente tacciata di mediocrità e sterile ridondanza. Per entrare nel merito della pratica compositiva, notiamo che il carattere dominante del cremonese è un certo realismo nel rendere gli ambienti e le passioni. Celebre il ritornello di flauti dolci che nell’Orfeo è associato emblematicamente al mondo bucolico dei pastori, in contrapposizione ai campi di morte dell’Ade, scenario degli atti III e IV, cui meglio si addice il lugubre motivetto degli ottoni.

La poetica monteverdiana si dimostra sensibile ai temi morali anche nella scelta e nella trattazione dei soggetti, in gran parte affidata ai librettisti, ma non certo priva di interventi e correzioni in stretta collaborazione col Maestro. Sopra le guise mitiche e storiche, perfettamente comprensibili al pubblico colto dell’epoca, si stende un inequivocabile velo di Cristianità.

 

Questo testo di Andrea Meneghel è stato tratto dalla rivista Radici Cristiane. Visita il nostro sito radicicristiane.it

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