Meriti e soddisfazione in Purgatorio

Prima di compiere il miracolo della guarigione del cieco nato (Cap. IX di S. Giov.), Gesù uscì in questa espressione: «Me oportet operari opera eius, qui misit me, donec dies est: venit nox, quando nemo potest operari – Bisogna che io faccia le opere di chi mi ha mandato, fintanto che è giorno: viene la notte quando nessuno può operare» (Id. IX, 4). Il giorno di cui parla il Signore è la vita terrena, la notte la morte del corpo. Finchè si vive quaggiù, si può meritare per l’altra vita, tosto che giunge la morte, è preclusa la via dell’acquisto dei meriti.
Appena morto, il povero Lazzaro fu portato dagli Angeli nel seno di Abramo, mentre il ricco Epulone morì e fu tosto sepolto nell’Inferno (Luca, XVI, 19-22). «Coloro che vivono – scrive S. Girolamo – possono compiere opere meritorie, ma i morti nulla possono aggiungere ai meriti acquistati durante la vita terrena» (In Eccles., IX, 4). Il tempo della prova cessa col cessare della vita terrena e con lui il tempo utile per l’acquisto dei meriti. Il meritare è proprio solamente di quaggiù: in cielo gli atti soprannaturali non hanno valore meritorio; l’albero che ha raggiunto il suo pieno sviluppo non cresce più.
Tanto meno potrebbero avere valore soddisfattorio, perché essendo compiuti in pieno possesso della felicità, manca loro l’elemento essenziale dello sforzo o del sacrificio, da cui sorge la virtù soddisfattoria. Nel Purgatorio neppure ha luogo il merito; la virtù soprannaturale è arrestata nel suo sviluppo finale e come rappresa. Una soddisfazione si dà, ma questa è inalienabile ed è assorbita per l’intero nell’espiazione dovuta a Dio da chi vi pena; questa non soddisfa né può soddisfare che per se medesimo. Al momento in cui, pagato il debito, potrebbe essere in grado di donare della propria sovrabbondanza, lo investe la gloria che rende impossibile ogni opera soddisfattoria » (J. A. Chollet, 1 nostri Defunti, pag. 270)