Lorenzo di Credi. Annunciazione

Lorenzo di Credi (1459 – 1537) ha avuto la fortuna di vivere e lavorare a Firenze nell’epoca di Lorenzo il Magnifico, ma anche la sfortuna di essere stato contemporaneo e compagno di bottega di Leonardo da Vinci. Entrambi si formarono, infatti, nella bottega del Verrocchio, dove transitarono in quegli stessi anni anche altri grandi artisti, come Sandro Botticelli e Luca Signorelli. E, nonostante i fatti ci dicano a suo vantaggio che lo stesso Verrocchio lo volle erede della sua importante bottega, la critica successiva, a partire dal Vasari, ha invece creato una sorta di classifica tra tutti loro, da cui il povero Lorenzo non è uscito vincitore.
Eppure Leonardo se ne era dovuto partire, da quella Firenze medicea che non lo capiva, per cercare fortuna altrove, mentre il di Credi era sempre più apprezzato per i suoi soggetti devozionali. L’opera in esame ne è uno splendido esempio, realizzata tra il 1480 e il 1485 circa, quando il Verrocchio era a Venezia per lavorare al monumento di Bartolomeo Colleoni e Lorenzo di Credi ne gestiva la bottega a Firenze.
Allo stato degli studi non è ancora stata identificata la committenza, nonostante sui pilastrini della predella alla base della scena principale siano presenti degli scudi araldici con l’aquila. Ma certo è che doveva trattarsi di un committente (o di una committente) sofisticato e di alto livello, a giudicare dall’originalità iconografica e teologica dell’opera, inusuale nella produzione del pittore.
Decisamente moderno e innovativo è il contesto spaziale e luministico in cui la scena prende corpo. Le figure, improntate su toni chiari e luminosi, si muovono come su di un palcoscenico, sullo sfondo di un’arcata ariosa e classicheggiante, che ricorda il classicismo nitido delle architetture di Leon Battista Alberti. Un’ariosità, che si espande nelle lunette che sormontano gli archi, le cui finestre circolari aggiungono ulteriori occasioni per posare e riposare gli occhi sul cielo azzurrino.
Ma non è finita qui, perché dietro alla prima arcata s’intravede un’ulteriore quinta prospettica, nella loggia trabeata che filtra a mo’ di patio la veduta su un paese rasserenante, nitido, ove natura e presenza dell’uomo si fondono in totale armonia. A loro volta gli alberi oltre l’arcata centrale suggeriscono un’ulteriore apertura in profondità, che guida l’occhio verso il punto di fuga centrale, posto tra le montagne che si schiariscono man mano, secondo le regole della prospettiva aerea. Ma non si tratta di simmetria monotona: l’ultima arcata è cieca, anzi aperta su una stanza, ove s’intravede un letto, che insieme al leggio con libro in primo piano offrono uno spaccato di vita quotidiana, che rende Maria ancora più vicina a noi.
La luce riverbera da più fonti incrociate e addirittura proietta sul lembo del velo trasparente, che pende dal braccio della Vergine, gli stessi colori del pavimento della loggia.
In questo spazio concepito come scena teatrale, la predella ne diviene parte integrante. Insolitamente non è separata dalla pala principale, ma congiunta alla sua struttura, per formarne un vero e proprio proscenio, che sembra scolpito a bassorilievo.
Nella predella ci sono i presupposti di quello che sta accadendo nel contesto dell’Annunciazione. E non è un caso che sia stato deciso di incentrare la narrazione sul ruolo fondamentale della progenitrice Eva.
La prima scena a sinistra non tratta, come ci si aspetterebbe, della creazione di Adamo, bensì direttamente di quella di Eva. Traducendo in forma letterale quanto scritto nella Bibbia, Eva fuoriesce dal fianco di Adamo, mentre Dio padre la invita a farlo, benedicendola al contempo.
La scena centrale è il Peccato originale. Le due figure classicheggianti di Eva e Adamo, raffigurate nel massimo della loro bellezza ed eterna giovinezza, congiungono le loro mani in corrispondenza dell’albero di fico, lungo il quale è avviluppato il serpente della tentazione. Per quanto sia Eva a consegnare il frutto ad Adamo, la perfetta simmetria della scena e le mani giunte lungo l’asse centrale della composizione, rendono paritaria la responsabilità dell’atto, che subito genera i gesti di vergogna dei due verso la propria nudità.
L’ultima scena a destra raffigura la cacciata dei progenitori verso un contesto paesaggistico spoglio e desertico: d’ora in poi dovranno lavorare per nutrirsi. Eva protegge il suo corpo con il gesto della Venere pudica, memore di uno splendido modello statuario riconoscibile in uno dei capolavori della collezione medicea di arte antica.
Può stupire questa ricerca di bellezza, in particolare di Eva, nonostante la tragicità del soggetto raffigurato, ma non va intesa in senso puramente formale. Perché la Cacciata è da sempre letta come il protoevangelo, la prefigurazione della salvezza, che diventa possibile attraverso l’incarnazione del Figlio di Dio, nuovo Adamo, grazie all’offerta di sé di Maria, la nuova Eva. «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno», sono le parole di Dio al serpente della tentazione.
La scena dell’Annunciazione diventa dunque il vero momento risolutivo della storia narrata e dell’intera storia della salvezza. È il momento in cui si compie il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio, che prende carne attraverso il corpo di Maria. L’angelo è appena entrato a portare scompiglio in un momento di quieta meditazione sulle Sacre Scritture poggiate sul leggio. Maria, giovanissima e fragile, reagisce con un gesto istintivo di stupore e protezione di sé, ma subito si affida serena al messaggero di Dio.
Questo testo di Sara Magister è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. E’ possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it