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L’islamizzazione avanza, l’hijab nei centri commerciali

Zoom: una notizia alla settimana27 Febbraio 2019
Testo dell'audio

È disponibile anche per l’Italia. È l’hijab da competizione, il tradizionale velo femminile islamico, che copre capo e spalle, questa volta in versione agonistica. Rigorosamente di colore nero – e solo nero -, è disponibile per il nostro Paese sul sito online della Nike. Che precisa, anzi, come l’idea di produrlo «in tessuto leggero e traspirante» sia giunta nel 2015, raccogliendo l’appello lanciato dall’atleta di sollevamento pesi degli Emirati Arabi Uniti, Amna al-Haddad, lamentatasi per il fatto d’avere un solo hijab da indossare in gara e di doverselo lavare a mano ogni sera.

Non si tratta di un’iniziativa isolata. Anche il colosso Decathlon ne propone l’acquisto. Per ora solo in Marocco, ma dal primo marzo è disponibile anche in Francia e su Internet. A seguire, in tutti gli altri Paesi, ovunque ne venga fatta richiesta.

Tutto questo ha scatenato l’ira di femministe e laicisti, che han già urlato all’«apartheid sessuale».

Lydia Guirous, portavoce dei Républicains fondati da Sarkozy, algerina di origine ma convinta femminista, pasdaran del laicismo e dei valori della «République» ed ex-militante del Partito radicale, in un proprio comunicato non ha taciuto le sue critiche, biasimando che «delle aziende francesi promuovano l’ideologia multiculturalista e sacrifichino i nostri valori sull’altare» del business. Anche l’on. Valérie Rabault, presidente del gruppo parlamentare socialista nell’Assemblea Nazionale, ha fatto sue le doglianze delle Sinistre in genere, proponendo addirittura di boicottare Decathlon (e tutti gli altri?).

Che si vesta quasi da azione umanitaria e sociale un’operazione esclusivamente commerciale potrebbe far sorridere, se il vero punto non fosse, in realtà, un altro. Non è, infatti, una novità che il velo nello sport provochi polemiche: alle Olimpiadi di Londra del 2012 parteciparono per la prima volta due atlete saudite. Entrambe velate. Il che cozza contro l’art. 50-2 del Comitato internazionale olimpico, che recita: «Nessun tipo di atto dimostrativo o di propaganda politica, religiosa o razziale viene autorizzato in alcun luogo, sito o altro ambiente olimpico».

Solo un problema di regolamento, insomma? Nient’affatto. Qui c’è in gioco qualcosa di più. Qui c’è in gioco una prova di forza. Pochi lo notarono, ma in quelle Olimpiadi tra le due sportive si registrò una differenza abissale: la prima, la judoka Wojdan Sheherkani, nata alla Mecca nel 1996, ne fece una questione ideologica e, poco prima dei Giochi, dichiarò che non avrebbe partecipato ad alcuna gara, se non avesse potuto indossare il velo (il che, nella sua disciplina, complicava non poco le cose). La seconda atleta, invece, Sarah Attar, saudita ma nata nel 1992 a Escondido, negli Stati Uniti, tacque, non dichiarò nulla ed indossò quell’indumento. Così il Corriere della Sera diede notizia della competizione, cui lei prese parte: «Con l’immancabile velo islamico ad avvolgerle la testa e una divisa verde a maniche lunghe, Sarah, 19 anni, trattiene a stento l’emozione al suo ingresso in pista e, con un timido cenno del capo, risponde all’ovazione che il pubblico le tributa, quando lo speaker annuncia il suo nome. Poi lo start e la gara vinta agevolmente dalla keniana Janeth Jepkosgei Busienei in 2’01”04, mentre l’atleta saudita è ancora abbondantemente indietro. Taglierà il traguardo una quarantina di secondi dopo, ma è come se fosse stata lei a vincere, perché le migliaia di persone sugli spalti si alzano in piedi ad applaudirla. Lei scappa via, sfugge alla selva di giornalisti assiepati in zona mista ad aspettarla e torna negli spogliatoi, lasciando però l’immagine di quel sorriso, che dice molto più delle parole».

Molto più disincantata, invece, la lettura di questo stesso episodio sportivo, proposta da Lorenzo Declich in «Islam in venti parole»: «Sul profilo di Sarah Attar, sul sito ufficiale di Londra 2012 – scrive – appariva un’icona al posto del viso. Cercando in rete, dopo un’immagine della velocista mentre si allenava con un panno che le copriva i capelli, compariva una fotografia in cui l’atleta saudita appariva senza velo. La fonte di quell’immagine, paradossalmente, era proprio il profilo dell’atleta sul sito ufficiale dei giochi olimpici. Cercando immagini di Sarah Attar in rete, insomma, si risaliva a questa foto che, tuttavia, era stata nascosta sul suo profilo. Evidentemente Sarah Attar, al contrario della sua collega, non portava il velo, né copriva i capelli per scelta, ma ciò non venne rilevato da nessuno. Aveva vinto soprattutto chi le aveva messo il velo addosso, togliendole la parola».

Allora, quel che preoccupa è che l’arrivo del hijab negli scaffali dei centri commerciali rappresenti un tassello ulteriore dell’avanzata nell’Occidente cristiano di una progressiva, ma inarrestabile islamizzazione, coniugando la società dei consumi con le leggi del mercato e con un’immigrazione selvaggia. Si è partiti con la carne halal, per poi allargarsi alla cosmesi e dintorni; ora è la volta dell’abbigliamento e non a caso due anni fa, il 15 febbraio 2016, per la precisione, in Canada, ad Ottawa, si è tenuta addirittura una «Giornata del hijab», simbolo di un sistema non solo folcloristico, bensì religioso e persino giuridico radicale, alieno rispetto ai valori dell’Occidente cristiano.

Lo ha notato persino Annie Sugier, presidente della Lega per i Diritti internazionali delle donne, che, in un’intervista all’emittente Lc1, ha dichiarato, a proposito dell’arrivo del hijab nelle corsie dei vari Decathlon: «È uno choc, poiché lo sport è il luogo della neutralità politica e religiosa. Il fatto di commercializzare» tali indumenti, viceversa, «rappresenta un modo per diffondere una visione politico-religiosa islamica». Il che appare, purtroppo, sempre più come parte di una drammatica strategia globale.

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