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Le città dell’Anello d’Oro

Arte e Cultura16 Luglio 2020
Testo dell'audio

Chi programma un viaggio a Mosca solitamente non trascura di inserire anche il giro delle città dell’“anello d’oro”, ossia di quegli antichi centri che si estendono da Mosca a San Pietroburgo, e che costituirono la culla della civiltà e della storia russa. Le cattedrali di quelle città sono monumenti di fede e cultura: le loro iconostasi, confessioni di fede nell’Incarnazione, sono anche straordinarie opere d’arte che attestano le scuole pittoriche attive in quei centri.

Roma ha, pure, un suo ideale “anello d’oro”: Albano, Frascati, Palestrina, Porto, Santa Rufina, Sabina, Poggio Mirteto, Velletri, e Segni. Alcune di queste cittadine sono municipi dal glorioso passato e, sin da tempi molto antichi, sedi delle diocesi suburbicarie di Roma. Visitarne le cattedrali significa riconoscerne la storia, riviverne la fede, apprezzarne l’arte, identificarne l’ufficio. Le gloriose radici in alcuni di questi templi sono evidentissime al pari dei segni lasciati dallo scorrere del tempo o dagli eventi bellici come a Frascati. Un ulteriore “anello d’oro” è dato dalle località che custodiscono Miracoli Eucaristici, da Orvieto ad Alatri, a presidio della Fede della Città Eterna.

Per l’edilizia sacra cristiana è sempre stato chiaro che l’abside è «il capo del corpo che è la chiesa»: in questo luogo di gloria può trovar posto anche la sede del vescovo. Ma il cuore dell’abside sta nell’altare, sul quale si compie il Sacrificio eucaristico e si è soliti conservare le Sante Specie, onorato per ciò dal ciborio. L’altare col tabernacolo è il cuore dell’intero edificio. Tutto visivamente e architettonicamente conduce lì. L’armonia del corpo deriva dalla logicità del capo e del cuore, la santità del tempio deriva dalla santità dell’altare che contiene, e l’altare è santo perché lo si consacra e perché su di esso si consacra e si conserva l’Eucaristia.

Parimenti la grandezza e la dignità del Sacerdozio provengono dalla forza di consacrare l’Eucaristia e di rimettere i peccati. La cattedra è in funzione dell’altare come il Sacerdozio dell’Eucaristia. Nelle chiese che hanno conservato l’assetto antico, con la cattedra al centro dell’abside o di lato come attesta il podio marmoreo della Cappella Sistina, o nelle chiese sorte dopo la riforma tridentina, il sacerdote diventa evidente solo quando, come Cristo sale il Golgota, ossia quando sale all’altare, e lì in persona Christi agisce.

Quando in età medievale, in ragione della celebrazione comune dell’Ufficio divino cominciarono a strutturarsi i cori per monaci e canonici, in essi la sede dell’abate o del vescovo, era sì trattata con riguardo, ma mai era collocata in posizione centrale. Fu all’indomani del Concilio di Trento, quando i cori furono voltati, ossia collocati dietro l’altare maggiore e adattati al giro dell’abside, che, in quello spazio riservato alla preghiera corale, la sede del vescovo, o del priore o del maestro venne a trovarsi al centro. Ciò accadde o perché già esisteva una sede più antica o per le legittime esigenze conventuali di monaci con il proprio abate o di canonici col proprio vescovo o di collegiate. A nessun vescovo, comunque, sarebbe venuta l’idea di celebrare i pontificali da lì. Tutto era pudicamente velato dall’altare con il tabernacolo sovrastato dalla croce, posto innanzi quale ideale tramezzo.

I filologi hanno scoperto una capacità della lingua di resistenza e di reazione alle modifiche autoritarie esterne. Qualcosa di simile avviene anche nelle chiese. Ci sono ancora luoghi dove innanzi al pellegrino si apre lentamente, naturalmente, come la più avvincente scoperta, un misterioso e sconfinato paesaggio di cultura, di gusto, di vita spirituale. Con commossa meraviglia, egli avverte di varcare la soglia di una fra le realtà più venerande e di trovarsi alla presenza di tutto un movimento di anime che attraverso i secoli parla ancora con voce immediata.

Quelle chiese di cui lungo le età diverse egli va ritrovando la voce, agiscono come persone vive nel veloce e inarrestabile volgere dei secoli. E quegli altari e quelle testimonianze, che ne hanno con cura custodito la voce contro le incessanti ed eversive imboscate del tempo e delle mode, gli appaiono come gli elementi sacri di una realtà arcana. Filologo inconsapevole egli avverte che c’è una realtà vivente e operante al di là della variabilità e dello spazio, una realtà che è componente sostanziale della nostra civiltà, anzi che è segno del fine non labile dell’uomo. Quella realtà di chiama Tradizione.

 

Questo testo di Mons. Marco Agostini è tratto da Radici Cristiane. Visita radicicristiane.it

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