La rivoluzione russa sui giornali

L’Italia, sconvolta dal disastro di Caporetto, nei primi giorni del novembre 1917 non aveva ancora compreso cosa fosse realmente accaduto in Russia, né l’immane portata che la rivoluzione bolscevica avrebbe avuto sugli equilibri internazionali presenti e futuri. Anche la stampa nazionale dedica a quegli eventi uno spazio piuttosto modesto.
«L’Avanti» andò fuori tema
Ciò diviene evidente, osservando la prima pagina de L’Avanti di sabato 10 novembre 1917. Il giornale del Partito socialista italiano vi dedicò solo due colonne e non parlò neppure espressamente di rivoluzione, preferendo soffermarsi sull’evasione fiscale in Russia, sulla povertà, sulla crisi economica, sulle richieste salariali. Questo il titolo, estremamente essenziale: «I massimalisti padroni del potere – Kerensky fuggito e gli altri ministri arrestati».
Le “sviste” de «La Stampa»
Anche La Stampa non parve rendersi conto della portata e delle conseguenze derivanti dagli sconvolgimenti in atto. Sul numero del 30 ottobre 1917, ad esempio, con l’articolo «Che cosa è la rivoluzione russa?» riuscì a tracciare una lunga, benché fuorviante analisi della situazione russa, senza mai nemmeno citarne i protagonisti, Lenin e i Soviet, e senza coglierne i veri prodromi, tanto da ritenerla frutto in «molta parte del caso. Essa non era veramente premeditata nei risultati che ha avuto, né preparata precisamente per il tempo della sua esplosione».
Ma nemmeno ne colse la sostanza, ritenendo che potesse apportare al popolo «la più sconfinata libertà politica», di stampa («sono usciti in tre, quattro giorni, solo a Pietrogrado, almeno dieci giornali nuovi di ogni formato e di ogni tendenza»), di opinione («Le idee, le teorie si incrociano»).
I silenzi del «Corriere»
I fatti han dimostrato tragicamente come nulla di tutto questo corrispondesse a realtà ed anche come la lettura degli eventi, in Italia, fosse completamente sbagliata. Anche a distanza. Ancora nell’edizione del 26 luglio 1918 il Corriere della Sera riuscì a dedicare all’assassino dello Zar meno della metà dello spazio riservato ad una corrispondenza di Luigi Barzini sulle gesta dei reparti italiani inviati al fronte occidentale.
Per dire che cosa, poi? Nulla della strage dell’intera Famiglia imperiale, del tutto taciuta, bensì ogni male possibile del sovrano, della Corte e del regno: «Pare che l’abbiano finalmente ucciso quell’inerte prigioniero, che era stato un inerte Imperatore: ucciso, sgozzato come di nascosto». Nessuno dei suoi predecessori «era stato come lui debole, maneggevole, opaco. Come uomo era probabilmente il migliore della sua Corte: il solo onesto, forse, in quella baraonda di gaudenti, di ladri, di intriganti, di pazzi, di traditori che fu travolta con lui. Senza volontà e senza ambizione non ebbe pur un istante l’idea di tener fronte alla tempesta. Era un uomo finito, a cui si poteva lasciar la vita fisica, poiché la sua vita storica giaceva sotto rovine irremovibili».
Senza alcun rispetto verso l’empio eccidio che condusse allo sterminio suo e della Famiglia Imperiale, il quotidiano milanese ha interpretato anzi il suo omicidio come l’occasione per vomitar veleno sul suo sistema di governo: «Una non classe ma casta dirigente, organicamente incapace di evoluzione, aveva continuato a dominare secondo gli antichi sistemi, cercando d’impedire – o meglio impedendo naturalmente, con la sola brutalità del suo peso infecondo e mortificante – lo sviluppo di quelle istituzioni liberali, che pure era stata costretta ad accordare». Nicola II «da quasi un anno e mezzo viveva prigioniero della rivoluzione. Poi non la rivoluzione, con una sua sentenza crudele ma storica, sì bene il gesto brutale e dispotico d’un soviet provinciale lo ha ucciso».
Rivoluzioni a confronto
Dopo aver esaltato i fasti della Rivoluzione francese («è una nazione che si attribuisce una responsabilità e che la sopporta con grandezza davanti alla Storia»), il Corriere della Sera ha bocciato senza appello quella sovietica non scorgendone la truce ideologia soggiacente, in grado di contaminare il mondo, bensì sottovalutandola e lamentandone l’inettitudine: «Ecco che un soviet di provincia, con un gesto d’impazienza, sgozza lo Zar: e nega così la rivoluzione russa con un atto, che ne parrebbe la più tragica affermazione. Poiché una rivoluzione può essere immensamente turbinosa; non è mai veramente e totalmente caotica. La bieca follia bolscevica sta a una rivoluzione come la tregenda degli anabattisti al Cristianesimo del romano Paolo di Tarso. L’anarchia russa si è umiliata, come doveva, davanti allo Zar decaduto. Aveva bisogno di un giustiziere e non ha trovato che degli assassini».
In realtà, è la stessa corrispondenza pubblicata dal giornale milanese sotto tale articolo a smentirlo, evidenziando come la condanna non sia stata il gesto sconsiderato di un isolato «soviet di provincia», essendo «d’accordo il Governo di Mosca» ed avendola firmata Lenin e Trotskij. Nella cronaca, sfruttando la ricostruzione proposta dal Lokal Anzeiger, non si tacciono edificanti spunti relativi alla personalità del sovrano: «All’annunzio della condanna lo Zar si mantenne calmo. Appena si trovò nella sua stanza, chiese un prete, che comparve subito e restò solo con lo Zar in preghiera». A Kiev, in Cattedrale, si celebrarono «uffici divini a cui intervennero migliaia di persone». Nelle chiese si pregò per l’Imperatore, «che ha tanto sofferto», mostrando già «le miserie portate in Russia dai bloscevichi» ed auspicando «il ritorno della Monarchia e della dinastia“. “Sebbene il tempio sia distrutto, esso risorgerà dalle ceneri”». Ciò, ad evidenziare come nella patria del sovrano ammazzato, la lettura e l’interpretazione dei tragici avvenimenti fosse diametralmente opposta da quella azzardata sulla stampa italiana.
Ampio spazio su «L’Excelsior»
Molto più ricco di particolari l’Excelsior del 9 novembre, che dedicò agli eventi l’intera prima pagina con un prudente ed ampio resoconto, anche fotografico: «I massimalisti padroni di Pietrogrado – Il governo provvisorio è stato dichiarato decaduto – Il soviet ha preso il potere ed ha acclamato Lenin – Il nuovo governo ha chiesto una “pace giusta e immediata” e la spartizione delle terre».
Il giornale non nasconde le proprie simpatie verso il «soldato della Patria e della Rivoluzione», nonché «deputato socialista alla Duma» Kerensky, «uomo generoso, che ha donato il meglio di sé» al suo Paese: «Non è detto peraltro – si legge – che la sua carriera politica sia finita e che per questo grande operaio della Rivoluzione non ritorni il momento. Qualunque cosa accada, lascerà una nobile pagina nella storia» russa. In seconda pagina si trovarono analisi, approfondimenti e interviste in merito. Un punto di vista, insomma, prudente verso i nuovi padroni del Paese, tuttavia accomodato pur sempre nell’alveo rivoluzionario.
La stampa cattolica vide giusto
Nel vol. I del 1918 il periodico dei gesuiti, Civiltà Cattolica, inquadrò meglio l’intera questione: «I rivoluzionarii d’Oriente sono figliuoli legittimi e discepoli ingenui dei nostri rivoluzionari d’Occidente». Ed ancora: «I socialisti sono traviati dolorosamente e preparano un totale sovvertimento dello Stato e della società», individuando «i loro antichi maestri» nei «massoni e falsi democratici, che li hanno formati all’odio della religione e della morale cristiana, che è lo spirito della rivoluzione». E preconizzò: «Chi è che non veda, fra gli attenti osservatori, il regresso di questa nostra “civiltà” tanto vantata verso il paganesimo, anzi verso qualche cosa di peggio ancora, l’ateismo sociale? Quindi il culto della forza e della materia, la smania morbosa della voluttà, la corsa accanita alla conquista del caduco, che non può saziare mai la brama dello spirito, fatto per l’infinito. Quindi l’effetto necessario del disagio universale e del conseguente soqquadro sociale». È quanto oggi si è adempiuto.
Il periodico peraltro, molto più tardi, nel quaderno 3170 del 1982, dopo aver specificato come l’Internazionale comunista fosse stata «creata illegalmente da Trotskij mentre era in esilio», ha evidenziato come già all’epoca si profilasse quella tensione al governo mondiale, che cent’anni dopo pare una prospettiva sciaguratamente concreta, ma le cui origini stanno proprio nella rivoluzione: «Si teorizza lo Stato unionista per il mondo e non più in maniera transitoria, ma come un’istituzione mondiale stabile. Sicché, realizzata la vittoria mondiale sulla borghesia, i “lavoratori di tutti i Paesi” del mondo potranno entrare a far parte dello Stato unionista mondiale». Nei decenni han mantenuto purtroppo saldi i propri propositi. Sino ad oggi.
Questo testo è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. E’ possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it