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La «perpetua quadriglia»

Attualità20 Marzo 2018
Testo dell'audio

Il Principe di Bismarck scrisse che «la politica internazionale è un elemento fluido». Accanto a qualche dato costante, lo scontro tra Europa Cristiana e mondo musulmano nel Medio Evo e nell’epoca moderna ne è l’esempio più rilevante, la politica internazionale ha sempre infatti conosciuto rovesciamenti di alleanze e allineamenti tattici e temporanei, dando vita alla «perpetua quadriglia» tra le Grandi Potenze.

Ha costituito una parziale eccezione il periodo rigido, anomalo e irripetibile della Guerra Fredda, che però vide il clamoroso riavvicinamento tra la Cina comunista, ancora vivente Mao Zedong, e gli Stati Uniti guidati dal conservatore Nixon, per non parlare dei numerosi cambi di campo nel Terzo Mondo.

 

L’era delle illusioni

Oggi i capisaldi della Guerra Fredda sono crollati e non è evidente quale sia il cardine della politica internazionale. Gli studiosi hanno difficoltà a definire il periodo successivo al 1989, limitandosi a parlare di “dopo Guerra Fredda” o di “sistema post-bipolare”. René Albrecht-Carrié definì gli Anni ‘20 del secolo XX «l’era delle illusioni»; Jean-Baptiste Duroselle ha parlato per quello stesso periodo di «illusione della sicurezza collettiva».

Gli Anni ’90 sono stati il secondo “decennio delle illusioni” del secolo XX, iniziati, all’epoca della prima guerra all’Iraq, con le speranze di «nuovo ordine mondiale», proseguiti e conclusi, nonostante le amare delusioni in Somalia, in Jugoslavia e altrove, con la guerra nel Kosovo in nome dei “diritti umani”, preludio auspicato di un generale trionfo della giustizia internazionale.

L’uso della forza militare sembrava consentito solo in operazioni che comunque contenessero il prefisso peace o “umanitarie” fortemente venate d’ambiguità, in un clima di “buonismo” internazionale, che mascherava le dure e classiche realtà della politica di potenza. Gli Stati Uniti, “sceriffo planetario”, vivevano il loro momento unipolare. Autore di riferimento di tale visione era Francis Fukuyama con la discutibilissima formula della fine della storia con un Occidente trionfante.

 

The Rise of the Rest

L’11 settembre 2001 aprì tuttavia una nuova fase, della quale la lotta al terrorismo islamico era la caratteristica dominante. Il 9/11, giorno dell’attentato alle torri gemelle, oscurava l’11/9, giorno della caduta del Muro di Berlino. L’autore di riferimento diventava Samuel Huntington, per il quale l’Occidente non era per nulla trionfante, doveva anzi affrontare uno scontro con le altre “civiltà” in ascesa. La sfida venne raccolta dalla presidenza di George W. Bush, con operazioni militari non più di peacekeeping bensì di lotta al terrorismo con forte impegno in combat operations, inserite altresì in un programma ambiguo e illusorio di “esportazione della democrazia”.

La fase incentrata sulla lotta al terrorismo sembrò però finita almeno dal 2008 e ne fu proclamata ufficialmente la chiusura dal presidente Obama. Il nuovo elemento dominante sembrava la “grande crisi”, che vedeva tutto l’Occidente in difficoltà economico-finanziarie, mentre era evidente l’ascesa di nuove Grandi Potenze non occidentali: the Rise of the Rest, dopo secoli di Rise of the West, secondo la formula di Fareed Zakaria.

Tuttavia, in un breve arco di tempo, mentre l’economia, bene o male, si riprendeva, riappariva prepotentemente la minaccia del terrorismo internazionale di matrice musulmana, il Medio Oriente passava dalle “primavere arabe” all’“inverno islamico” o più propriamente al caos geopolitico, ondate migratorie investivano un’Europa smarrita mettendone a rischio gli equilibri politici.

 

La crisi dell’Europa

Come definire tutto ciò? Le varie definizioni – «pace fredda», «geopolitica del caos», «Post-American World» – sono poco più che formule pubblicistiche. Il «primo secolo XXI» ha un «avvio confuso e dalle prospettive discordanti e imprevedibili»; «per la prima volta in due secoli il mondo manca completamente di ogni struttura internazionale». In Europa, la crisi dei modelli istituzionali e delle ideologie politiche tradizionali genera in politica estera impotenza e incapacità di visioni strategiche.

Oggi, soprattutto nei Paesi democratici europei, vi sono elementi strutturali che rendono assai deboli i governi e le loro politiche estere. L’Unione Europea ha eroso la sovranità dei governi nazionali, espropriandoli di molti poteri, con pesanti conseguenze sul funzionamento della democrazia. Perché votare, si chiedono in tanti, se molte decisioni in settori chiave sono strettamente vincolate da Bruxelles? In realtà poi l’Ue, contravvenendo al principio di sussidiarietà, si occupa di questioni minime, però resta priva di una politica estera e militare.

 

Politiche migratorie nel caos

L’Ue vantava i suoi maggiori, unici successi in campo economico con la moneta comune, oggi messi in dubbio. L’economia occupa certo un posto dominante nelle odierne relazioni internazionali eppure proprio un Premio Nobel per tale disciplina, Maurice Allais, ammoniva già un quarto di secolo fa: «La questione dell’immigrazione è attualmente la questione più importante che si pone all’Europa. Essa è ben più importante e urgente del problema dell’instaurazione di una moneta comune». Il fallimento dell’Ue in tale campo è sotto gli occhi di tutti ed è all’origine del “populismo”, brutta parola cara alle caste politically correct. Se gli elettori votano bene rappresentano la volontà popolare, se votano male esprimono conati populisti. Non bastano però gli anatemi ad esorcizzare le preoccupazioni su identità e sicurezza.

 

Trump sotto attacco

Fuori d’Europa, gli Stati Uniti, primo attore della politica mondiale, appaiono incerti e imprevedibili. Anche Trump soffre, in maniera senza precedenti, di una difficile situazione interna. Mai un Presidente è stato oggetto fin dall’entrata in carica di una così forte e sistematica campagna di delegittimazione guidata dal predecessore. Il Russiagate, una vicenda surreale e inconsistente, tiene Trump sotto scacco e gli ha impedito finora di realizzare una svolta positiva nei rapporti russo-americani.

La posizione di Trump in politica interna è però assai meno precaria di quanto viene presentata al pubblico italiano da commentatori a lui ostili. L’economia cresce, sono stati creati un milione di posti di lavoro, la disoccupazione è al 4,3%, la più bassa degli ultimi sedici anni, aumentano anche i salari (dello 0,3% a luglio rispetto allo 0,2% del mese precedente), si preannuncia una forte riduzione delle tasse anche per il ceto medio. L’America profonda sostiene Trump, un populista al governo, poco curandosi delle preoccupazioni delle élites liberal.

In un Paese che appartiene geo-politicamente all’Occidente, anche se è collocato in Estremo Oriente, il Giappone, un leader determinato ha rafforzato la sua posizione. Il Primo Ministro Shinzo Abe ha ottenuto una maggioranza parlamentare, che gli permetterebbe di modificare la Costituzione nei suoi articoli pacifisti, da lungo tempo non più in sintonia con la posizione del Paese nel contesto regionale di riferimento.

All’indomani della vittoria, Abe ha rilasciato una dichiarazione significativa: «Difenderemo il nostro popolo, proteggeremo il nostro felice stile di vita dando un futuro ai nostri figli e alla nazione». «Con Abe i giapponesi scelgono la globalizzazione ma senza la rinuncia alla propria sovranità, il multiculturalismo ma senza la rinuncia della propria marcata identità, scelgono di partecipare a “coalizioni internazionali” ma senza rinunciare al proprio individualismo, di aderire ai dettami della finanza internazionale ma con la propria politica monetaria».

 

Verso un mondo tripolare?

La globalizzazione, che attraverso l’economia voleva anche imporre valori universali anti-tradizionali, per una eterogenesi dei fini peraltro del tutto razionale, ha rimesso in cammino la Storia, risvegliato la politica e le identità. L’ordine internazionale liberale si indebolisce e ritorna la classica politica di potenza. Politica interna e politica estera interagiscono; il progresso della democrazia segna il passo e il rifiuto di una certa modernità si accompagna alla diffidenza verso le politiche internazionali accusate di imporla. Si va forse verso un mondo tripolare, con gli stessi attori degli Anni ’70 e ’80 del XX secolo, ma con Stati Uniti più deboli e Pechino, non Mosca, come altro attore predominante.

A questa prospettiva umana, va comunque aggiunta quella della teologia della Storia, quanto mai attuale nel centenario delle apparizioni di Fatima. Dopo la «convulsione universale che porterà con sé lo sconvolgimento dell’attuale disordine nel mondo», Nostra Signora ha promesso: «il mio Cuore Immacolato trionferà».

 

 

Questo testo del prof. Massimo de Leonardis è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. E’ possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it

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