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La “Misericordia” di Firenze

Arte e Cultura11 Marzo 2021
Testo dell'audio

Guardando le vicende della Misericordia di Firenze è possibile scrivere la storia, ben accurata, delle varie epidemie dal 1200 ad oggi e, soprattutto, la storia della cristiana carità. Non a caso il fondatore della Misericordia ha, quale costante riferimento, una “pietra”: san Pietro Martire, un domenicano, un santo inquisitore. Gli eretici patarini lo martirizzeranno proprio spaccandogli il capo con una pietra, nei pressi di Como, eppure trovò la forza di scrivere su quella stessa pietra, con il suo sangue, Credo. I Capitani del popolo (Capi di Guardia), che affiancarono il frate nella battaglia per la fede, si dedicarono ad opere di cristiana carità e fondarono la Misericordia (Miseris – cor – dare, ovvero dare il cuore ai miseri).

Ma «sia come si voglia il primo patrono della nostra Misericordia – scrive Giovanni Papini – non fu un santo cristiano, bensì una figura dell’antico testamento, il pio e amorevole Tobia, coraggioso e instancabile seppellitore di morti. Soltanto più tardi la Misericordia adotterà come compatrono san Sebastiano, il soldato martire protettore degli appestati…».

E fu proprio durante le pestilenze, le varie epidemie che, grazie ai 72 Capitani a cui si aggiunsero numerosi ascritti, solo di buoni costumi e devoti, la Misericordia scrisse le sue pagine più belle e luminose. I Capitani scrissero nei Capitoli: «Ancora vogliamo e ordiniamo che nessuno usuraio o soddomito o bestemmiatore di Dio e de’ santi […] o concubinari sia di questa Fraternità».

La Compagnia di Santa Maria della Misericordia nacque nel 1240. L’istituzione dei Capitani è stata pure accennata da sant’Antonino, arcivescovo di Firenze, che nel suo Chronicorum liber illustrò l’origine dei «Laudesi di Orsammichele». Insomma possessi e beni furono lasciati all’istituzione, in riconoscenza delle opere di carità esercitate dai confratelli, specie durante le epidemie, sfidando il contagio.

A Firenze nel 1348 vi fu la grande pestilenza, in cui perse la vita Giovanni Villani e di cui parla, nel libro IV delle Croniche, il fratello Matteo: una tragica epidemia che, secondo il Boccaccio, falcidiò, «in città e dominio», centomila persone. Giovanni Boccaccio descrive poi, crudamente, la tragedia che si stava consumando nella «bella Fiorenza»: molti abbandonavano la famiglia, gli anziani, le mogli e perfino i figli e fuggivano o, peggio, si davano alla crapula e alle orge, al ladrocinio, mentre i malati rimanevano senza assistenza alcuna e i morti imputridivano nelle strade e nelle case, perché nessuno voleva, per paura del contagio, toccare i cadaveri; ma ecco la carità, ecco anche allora i 72 Capitani, i fratelli della Compagnia di Santa Maria della Misericordia: «… andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quattro bare, da’ portatori portate, di dietro a quella e dove un morto credevano avere i preti a seppellire, n’aveano sei o otto e tal fiata più».

Il Protonotaro apostolico, già chierico di camera di Leone X, fece portare in Firenze nel 1527, allorché terminò la peste, dalle catacombe romane, come reliquia, «parte della testa». La Compagnia della Misericordia lo aggiunse ufficialmente come patrono, oltre al patriarca san Tobia, e, da qui, anche l’usanza di distribuire i pannellini benedetti il giorno del 20 gennaio e di darli in dono ai «fratelli», usanza che, provvidenzialmente, è stata tramandata fino ai nostri giorni.

Scrive A. Cirri in un articolo riportato in La Misericordia di Firenze, memorie, curiosità, tradizioni: «Non vogliamo terminare senza accennare all’opera indefessa, caritatevole, prestata dal Granduca Ferdinando a pro del popolo fiorentino. Fino da quando il contagio si presentò si fece sollecito di essere informato sul progredire di esso e del male che recava. Capo di Guardia e Conservatore della Misericordia, quando si richiese la sorveglianza diretta, fu veduto alla testa dei suoi gentiluomini, quando a piedi quando a cavallo, in vesti dimesse, recarsi nei lazzaretti e nelle case private a confortare gli ammalati, recar coraggio agli assistenti. Fu veduto con la primaria nobiltà fiorentina celarsi sotto la veste nera e con i “fratelli” dividere le fatiche ed i pericoli nell’affrontare il contagio».

 

Questo testo di Pucci Cipriani ed Ascanio Ruschi è tratto dalla rivista Radici Cristiane. Visita il sito radicicristiane.it

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