La guerra dei tre Enrico

A coronamento della lunga stagione dei conflitti religiosi in Francia, la Guerra dei tre Enrico si apre il 10 giugno 1584 con la morte dell’ultimo figlio di Caterina de’ Medici, Francesco, duca d’Angiò. Non è mai salito al trono di Francia, dove siede più o meno stabilmente suo fratello, Enrico III. Ne era però l’unico erede. La sua morte dunque pone il Regno di fronte al problema della successione. I tre Enrico in questione sono: Enrico III di Valois, ultimo rappresentante d’una dinastia al tramonto, Enrico di Navarra, designato dalla legge salica ma ostacolato dalla fede calvinista, Enrico di Guisa detto Lo Sfregiato, capo della Lega Cattolica, privo di diritti dinastici ma forte dell’appoggio popolare.
A Blois il 16 ottobre 1588 si aprono gli Stati generali. Il clamoroso successo di Enrico di Guisa, soprannominato addirittura “il re di Parigi” per l’ascendente che esercita nella capitale, preoccupa Enrico III. È vero che, finché lui è in vita, nessun altro Enrico può sedere al trono, ma la sua autorità è sempre più debole. I francesi non amano l’ultimo dei Valois, non lo rispettano, sembra quasi che attribuiscano a lui la colpa della guerra. La politica di equilibrio e le troppe concessioni agli ugonotti hanno scontentato tutti. E ora, oltre a dover sopportare l’ostilità dei sudditi, è costretto ad assistere ai trionfi dell’avversario. Come essere Re di Francia, finché Enrico di Guisa è il “il re di Parigi”?
La decisione è repentina e drastica. Alle otto del mattino del 23 dicembre 1588, Lo Sfregiato viene convocato negli appartamenti reali. I famigerati “Quarantacinque”, i sicari di Enrico III, sono pronti. Lui arriva puntuale e senza scorta. Afferrato per le gambe, viene scaraventato a terra e colpito a morte. Riesce a rialzarsi, per raggiungere barcollando la stanza di Enrico III. Muore solo dopo avere fissato gli occhi in quelli del suo sovrano, suo amico d’infanzia, suo assassino. «Mio Dio, abbiate pietà di me», mormora, poi ancora «Miserere mei, Deus». «Non sapevo che fosse così grande» commenta il re, poi va ad annunciare la novità alla madre, Caterina de’ Medici, sconcertata e convinta che un simile gesto potesse essere foriero di rovina e di sventura.
Il giorno successivo viene mandato a chiamare anche Luigi, cardinale di Guisa. E si ripete la stessa scena. Ad Anna d’Este, dama di corte e amica intima di Caterina de’ Medici, viene annunciato così che nel giro di ventiquattr’ore due dei suoi figli sono stati uccisi. Non le viene concesso un ultimo saluto, non le saranno restituiti i cadaveri. Il re sa che le spoglie dei Guisa composte in una tomba diverrebbero meta di pellegrinaggi e non può permetterlo, dunque ordina che vengano gettate fra le fiamme, in un camino del castello di Blois. Anna d’Este in lacrime viene arrestata e sottoposta ad un ricatto: sarà libera, se porterà parole di pace ai capi della Lega cattolica. Non è mossa di facile successo, quella di proporre la pace dopo due delitti e il re sa bene che, se esiste una minima possibilità di farsi ascoltare, è solo tramite la duchessa di Guisa. Anna accetta e torna a Parigi.
L’11 febbraio 1589 entra in una capitale prostrata dal dolore. Comprende subito che le parole che ha promesso di pronunciare non saranno ascoltate, ma rispetta la parola data, rivolgendosi al più giovane dei suoi figli, il duca di Nemours, governatore di Parigi. Non appena liberatasi dalla promessa riprende a fare ciò che faceva prima, «ad attizzare il fuoco che divampò per lungo tempo ancora», riferisce il poeta Brantôme: incoraggia la resistenza a un sovrano che non difende più la Chiesa, dai gradini delle chiese arringa le folle, i parigini la chiamano «regina madre», per rimarcare la speranza che uno dei suoi figli possa salire al trono.
Enrico III ed Enrico di Navarra raccolgono un esercito per cingere d’assedio la Parigi ribelle. Ma troppo è ormai il disgusto dei cattolici, per poter sperare che nulla accada. All’alba di lunedì primo agosto 1589 un frate domenicano, Jacopo Clément, chiede di vedere il re per porgergli una supplica. Mentre Enrico III si avvicina, estrae dalla manica un pugnale e glielo affonda nel ventre. Dopo oltre due secoli si chiude la dinastia dei Valois. Enrico di Borbone è il legittimo erede. Con un calvinista designato al trono, fedeltà alla Chiesa e fedeltà alla Monarchia vengono a contrapporsi come mai è accaduto nelle terre del “re cristianissimo”. La monarchia francese ha sempre fatto della fedeltà alla Chiesa un titolo di speciale merito, ora si profila la possibilità che il re di Francia sia un eretico.
Il 26 gennaio 1593 si aprono a Parigi gli Stati Generali. La città è dominata dalla Lega cattolica e nessuno può ragionevolmente attendersi un successo del Borbone. La situazione sembra senza via d’uscita quando, il 17 maggio, l’arcivescovo di Bourges esultante annuncia che Enrico di Borbone ha accettato di abiurare l’eresia. La celebre frase, che accompagna la sorprendente decisione – «Parigi val bene una messa» – non è certo la più adatta a dar l’idea di una conversione sincera e infatti i cattolici non si fidano. Da molti pulpiti parigini si grida alla «simulata conversione». Il re si rende conto di aver bisogno di aiuto. Deve farsi accettare dai cattolici e l’unica che può convincerli è la madre del suo defunto rivale, Anna d’Este. La convoca subito dopo essere stato consacrato a Chartres, il 27 febbraio 1594.
Il fatto che Anna accetti subito di aiutarlo può apparire sorprendente, ma a ben guardare non lo è poi molto. Per tutta la vita si è battuta contro l’eresia, ora appoggia questo re, che fino a pochi mesi prima era nemico della sua famiglia e della Chiesa. Ma crede sia giusto, proprio perché né lei né i Guisa hanno mai combattuto per qualcosa che non fosse la difesa della fede. Non hanno mai chiesto potere, non hanno mai fomentato ribellioni come gli ugonotti. Volevano essere fedeli al re, ma volevano che il re fosse fedele alla Chiesa.
Ora, se Enrico IV promette di esserlo, perché non dargli una possibilità? Da quel momento ogni suo sforzo sarà rivolto a questo: convincere i cattolici a fidarsi di lui, a dargli una possibilità, per riportare finalmente la pace nel Regno. È certa di non sbagliare e infatti non sbaglia. Simulata o no che fosse la conversione, Enrico IV non tornerà indietro e la sua stirpe, quella dei Borboni, garantirà ancora per due secoli, fino alla rivoluzione francese, un re cristianissimo alla Francia.
Questo testo di Elena Bianchini Braglia è tratto da Radici Cristiane. Visita radicicristiane.it