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La cristianizzazione delle Americhe: un’epopea della fede cattolica

Arte e Cultura03 Giugno 2019
Testo dell'audio

Da secoli una “leggenda nera” fatta in grandissima parte di menzogne e calunnie è calata sull’epopea della evangelizzazione e conquista delle Americhe da parte spagnola. Le cause di tali mistificazioni sono evidenti, come evidente è l’incalcolabile vantaggio che le popolazioni precolombiane ebbero nel ricevere la vera Fede e la civiltà cristiana.

La “leggenda nera” che aleggia sulla cristianizzazione delle Americhe, ossessivamente ripetuta dai media e dalla vecchia e nuova sinistra internazionale, non ha dalla sua neppure quel debole contenuto di verità che si ritrova in ogni luogo comune.

Come scrive lo storico Jean Dumont in L’église au risque de l’histoire, la “leggenda nera” del «preteso massacro degli indiani» da parte spagnola si fonda esclusivamente sugli scritti di Bartolomé de Las Casas, la cui testimonianza «nessuno storico che si rispetti potrebbe prendere (…) per verità storica» e fu poi montata propagandisticamente e in funzione anticattolica dal Nordamerica protestante, cui urgeva liberarsi la coscienza dai propri crimini verso gli indigeni.

I Re Cattolici proteggono gli indios

La protezione degli indios da parte della Chiesa e delle Maestà Cattoliche spagnole, terminata la fase della conquista, si manifestò in molti modi: così, attraverso l’istituto dell’encomienda, le proprietà indigene non potevano essere intaccate e spesso furono gli spagnoli a trovarsi in gravi condizioni economiche, come segnalano numerosi rapporti del tempo, al punto che la stessa immigrazione iberica nel nuovo mondo divenne scarsissima. Agli indios i sovrani assicurarono un’efficace protezione giuridica. Per loro costruirono scuole ed ospedali.

La diffusione della Fede cattolica, accolta con entusiasmo dagli indiani, li trasformò negli apostoli più instancabili del Vangelo, né v’è traccia di battesimi forzati: «Gl’indiani non cessavano di domandare con preghiere, lacrime e insistenze di non essere privati di un così grande beneficio, allegando che, per venire a ricevere il battesimo, essi avevano dovuto fare molte giornate di cammino, compiere grandi sacrifici e affrontare sommi pericoli (…) Gli Indiani si presentavano a blocchi compatti, reclamando a gran voce il battesimo (…) I sacerdoti spesso non gliela facevano più a sollevare la brocca d’acqua con cui li battezzavano», scrive Dumont.

Prescindendo dall’omaggio, reso anche dal Magistero più recente (per esempio Paolo VI nella all’opera dei colonizzatori Populorum Progressio), la strepitosa e fulminea conquista ed evangelizzazione delle Americhe, ad opera di un pugno di uomini (poco più di 600 furono i conquistatori del Messico guidati da Hernán Cortés, e 16 quelli che, alla guida di Pizzarro, s’impadronirono dell’impero Inca!) non si può spiegare che con motivazioni religiose.

Dipingere perciò l’hidalgo Cortés e i Conquistadores, sul cui stendardo, croce rossa in campo nero, sventolava la scritta: «Amici, seguiamo la Croce di Cristo e, se c’è della fede in noi, con questo segno vinceremo», come avventurieri arraffatori di ricchezze è del tutto fuorviante, giacché trasferisce su uomini del XVI secolo, ancora impregnati di spirito soprannaturale e di una concezione cavalleresca della vita, propria del Medioevo cristiano, categorie che invece appartengono alla gretta mentalità mercantilista di questo secolo, tutta chiusa in un orizzonte naturale e che non riesce neppure ad immaginare che un uomo possa spendere la sua vita per un ideale che non sia esclusivamente materiale.

“Una prodigiosa effusione di grazia”

Piaccia, o no, il passaggio di un intero continente dalle efferatezze del cannibalismo e dei sacrifici umani di massa alla fede cristiana, non può appagarsi di considerazioni di ordine naturale. Scrive Dumont che fu «una prodigiosa effusione di grazia». I popoli indiani che si sollevarono contro la spietata tirannide atzeca ed incaica, videro negli spagnoli i loro liberatori e nella religione cattolica del Dio della misericordia, la salvezza dai demoni feroci che avevano fino allora adorato.

Ecco come avveniva un sacrificio umano:

«Quattro sacerdoti afferravano la vittima scaraventandola sulla pietra sacrificale. Quindi il Gran sacerdote piantava il coltello sotto il capezzolo sinistro, facendosi largo attraverso la cassa toracica, finché, rovistando a mani nude, non riusciva a strappare il cuore ancora pulsante e metterlo in una coppa per offrirlo agli dei. Poi il corpo veniva fatto precipitare dalle scale della piramide. Ad attenderlo in fondo, c’erano altri sacerdoti che lo incidevano sulla schiena, dalla nuca ai talloni, e ne strappavano la pelle in un unico pezzo. Il corpo scuoiato era preso da un guerriero che lo portava a casa e lo faceva a pezzi. Questi erano offerti agli amici in un banchetto rituale. Le pelli, invece, conciate, servivano di abbigliamento alla classe sacerdotale» (Avvenire, 09/05/1991).

Le cronache indigene sono dense poi di episodi che narrano di singolari interventi soprannaturali a vantaggio degli spagnoli e dei loro alleati. Ecco il racconto di una di esse:

«Uno del villaggio di Ah Xepach, indio fatto aquila, con tremila indios andò a combattere gli spagnoli. Gli indios partirono a mezzanotte e il capitano fatto aquila arrivò al punto di voler uccidere l’Adentalado Tunaidù [Pedro de Alvarado, uno dei più agguerriti subalterni di Cortés e futuro conquistatore del Guatemala], ma non riuscì ad ucciderlo, perché era difeso da una fanciulla bianchissima. Tutti volevano entrare, ma appena vedevano questa fanciulla, subito cadevano a terra e non potevano alzarsi dal suolo, e subito arrivavano molti uccelli senza piedi, e questi uccelli stavano tutti attorno a questa fanciulla. E gli indios volevano uccidere la fanciulla, e questi uccelli senza piedi la difendevano e li privavano della vista. Questi indios, che non riuscivano ad uccidere, né Tuniadù, né la fanciulla, tornarono indietro e mandarono invece un altro indio, un capitano fatto fulmine (…) e il suo nome era Nehaib, e questo Nehaib andò fatto fulmine là dove si trovavano gli spagnoli per uccidere l’Adentalado. Ed appena arrivò vide che sopra tutti gli spagnoli c’era una colomba bianchissima che li difendeva, e quando provò a rifarlo un’altra volta gli si offuscò la vista e cadde a terra e non riusciva ad alzarsi. Ancora tre volte questo capitano fatto fulmine, assalì gli spagnoli, e altrettante rimaneva cieco degli occhi e cadeva a terra».

Come non pensare, leggendo queste parole, alla Madonna, agli Angeli e alla Colomba, simbolo dello Spirito Santo? Ben si iscrive, infine, in questo contesto la nobile figura della Regina Isabella di Castiglia, principale artefice dell’evangelizzazione del nuovo mondo e la cui causa di beatificazione è giunta ad un passo dal suo epilogo.

I veri fini dei calunniatori

Qual è allora il vero motivo per cui la sinistra rivoluzionaria (antagonista ed ecologista) tanto si affanna a difendere il modello tribale degli indigeni precolombiani? La volontà di diffamare la Chiesa e le antiche monarchie cattoliche indubbiamente vi ha gran parte, come pure la passione, mai sopita, per un certo modello politico-sociale indio (presente sia nello Stato atzeco che in quello inca) segnato da inconfondibili tratti da “socialismo reale” ante litteram, in cui la terra e la vita dei contadini appartenevano allo Stato, e che, nel suo egualitarismo tribale, arrivava a fissare l’ora dei pasti e il menù, nonché il modo di vestirsi e di pettinarsi dei sudditi.

La vera ragione, tuttavia, risiede altrove, nel mito rousseauiano (poi romantico, oggi ecologista) del “buon selvaggio”, letterariamente tratteggiato nella figura del buon selvaggio Venerdì del Robinson Crusoe di Daniel Defoe. Gli intellettuali della nuova sinistra hanno da tempo optato per un ritorno alla foresta, alla società tribale, deindustrializzata, preconizzata da Levy-Strauss e oggi ripresa dai nuovi guru del progressismo. Come non pensare, dunque, che negli indios precolombiani e contemporanei la sinistra, appena passata dall’abbraccio soffocante con Lenin a quello con Montezuma e gli Yanomani amazzonici, veda l’inveramento storico, l’epifania del suo e (Dio non voglia) nostro futuro?

L’accanimento ecologista per il modello indigenista ricorda quello di certi comunisti degli anni ‘50 che magnificavano spesso, a parole, i paradisi dell’est, ma si guardavano bene dall’andarvi a vivere di persona. E infatti, se tornassimo indietro di cinquecento anni, quanti indiofili andrebbero a vivere fra i civilissimi Atzechi e Incas dai sacrifici umani incessanti e dal cannibalismo rituale, e non invece nella “terribile” splendida Europa cattolica d’Isabella o Carlo V?

E se pure questi indiofili nostri contemporanei, nell’anno del Signore 1492, decidessero, in odio alla Cristianità, di fare i bagagli e di andarsene a vivere fra i “felici” aborigeni delle Indie Occidentali; se riuscissero a sopravvivere al terrore di vedersi scannati e strappato il cuore o di essere divorati durante qualche pranzetto antropofagico; se sfuggissero alla schiavitù e alle spaventose malattie sessuali che affliggevano i nativi, proprio a causa degli orribili eccessi di una vita di peccato; c’è da esser certi che li ritroveremo in ginocchio, sulla sponda atlantica delle Americhe, a scrutare il mare e a recitar rosari, in attesa che i tanto detestati Conquistadores venissero a salvarli e c’è da credere che benedirebbero Iddio al veder spuntare all’orizzonte, infine, le vele cristiane di Hernàn Cortés.

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Questo testo di Nicola Cavedini è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. È possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it

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