Il trionfo nell’arte siciliana

Dire che un tour in Sicilia è un viaggio dell’anima è persino scontato, pensando a quanto antiche siano le radici di questa terra e a quali civiltà essa abbia ospitato, accolto, visto passare (capta ferum victorem cepit, possiamo dire). Così pure è quasi superfluo ricordare che la Trinacria è un continente, più che un’isola, dalla capacità quasi trasformistica di celare ad ogni tornante, ad ogni scoglio e ad ogni cantone una ricchezza insospettata e affatto diversa da quella ammirata sin lì.
In questo caleidoscopio di sensazioni, visioni, profumi e gusti, l’arte cristiana si afferma a rivendicare la forte religiosità dei siciliani, identità profonda cementata tra tante traversie politiche e umane e testimoniata in una continua mescolanza di riti, tradizioni, spiritualità e folclore.
Agrigento, “città più bella dei mortali”
Qualunque tentativo di itinerario, in un patrimonio tanto ricco e variegato, non può che risultare incompleto. Coscienti di ciò, affidiamoci al caso: o, meglio, al Kaos, per dirla con una parola pirandelliana. E, dunque, scegliamo di partire proprio da Agrigento e da quella contrada dove sorge la casa natale di Luigi Pirandello, museo dal 1987.
L’antica Akragas – “città più bella dei mortali”, secondo Pindaro – è stata per i romani Agrigentum, poi Girgent o Ghirghent per gli arabi, da cui il Girgenti di normanni, angioini, aragonesi, spagnoli e Borboni, finché il fascismo romanizzò il nome. Poche altre città portano insomma, nel nome e nel territorio, tracce di tante dominazioni ed epoche auree: come quella dal 488 al 472 a.C., quando venne edificata la più ricca area di templi della grecità, con quello di Zeus Olympieion al centro e altre opere colossali quali il Tempio d’Efesto (Vulcano), quello dei Dioscuri e la Kolymbétra, un imponente sistema composto da piscina, serbatoio e allevamento ittico, che Terone il Grande volle a propria fama e godimento del popolo.
La modernità seppe però stuprare questo monumento, riducendolo a discarica, mentre negli anni ‘70 del secolo scorso sorsero edifici abusivi nel mezzo dell’area dei templi. Anche oggi, dopo che la maggiore sensibilità ha consentito di correggere alcuni orrori, basta osservare la skyline di palazzoni della città nuova per riflettere su come l’uomo sia capace di distruggere in un giorno ciò che ha realizzato in secoli. E anche su come tale ingordigia consumistica sia ben lontana dalla sensibilità cristiana, che ha mantenuto tutti i templi alla loro funzione culturale, dopo uno sporadico utilizzo come basilica cristiana del Tempio della Concordia, che fu rispettosamente restituito alle forme primitive.
“Siracusa è tutto”
Ma uno dei luoghi dove meglio si coglie questa capacità dell’arte e della cultura cristiana di raccogliere le testimonianze materiali precedenti, valorizzandole a nuova e maggiore gloria, è forse Siracusa. Nel nucleo dell’Ortigia, il Duomo dalla facciata barocca di Andrea Palma con la statua della Madonna di Ignazio Marabiti, ingloba nelle sue mura le colonne dell’Athenaion, l’antico tempio di Atena. Nel sontuoso quanto semplice interno di quella che è la prima chiesa cristiana d’Europa, nella navata sinistra, tra le statue di Domenico e Antonello Gagini, ecco i resti dell’antico tempio dorico: esastilo in ciascuna delle due fronti, con ben quattordici colonne sui fianchi, alte più di otto metri.
Paolo Orsi, l’archeologo che ha consegnato questa parte della città al suo attuale splendore, ha fuso architetture distanti millenni in un unicum armonico che rievoca la storia religiosa e artistica della città, che l’illuminato tiranno Gelone volle come un “prezioso palinsesto”. Per Gelone “Siracusa era tutto”, dice Erodoto, mentre gli storici moderni notano come egli fosse conscio «che non è solo con i trionfi conseguiti sui campi di battaglia, né con la distruzione e lo sterminio di intere città che si conquista il diritto alla gloria, ma soprattutto con quelle benefiche opere di pace che trovano il più grande riflesso nei sentimenti religiosi del popolo». Un messaggio che sarebbe bene i nostri attuali governanti apprendessero e mettessero in pratica.
Non si può abbandonare la città, comunque a malincuore, senza almeno accennare ai capolavori custoditi nel museo e a Palazzo Bellorno, tra cui l’Annunciazione di Antonello da Messina e il Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio, e alla presenza del più importante bagno ebraico di purificazione (miqwè) presente in Europa, scoperto durante alcuni lavori di ristrutturazione, a confermare la ricchezza culturale di questa terra.
“Prosperità e splendore” di Palermo
Palermo offre non minori esempi di arte cristiana su strutture di diversa matrice. Anche la capitale denuncia nei nomi la sua lunga e travagliata storia: dal Panormus romano all’islamico Balarm, dagli Svevi agli Angiò, dalle dominazioni sabauda e austriaca fino ai Borboni. “Riunisce in sé prosperità e splendore” diceva nel 1183 un viaggiatore, ma già da duecento anni prima questa era una delle più cosmopolite città del mondo, con ben 300.000 abitanti.
Il Palazzo al centro del primo insediamento cittadino fu prima castello degli emiri, poi dei normanni, i quali lo ingrandirono e gli diedero l’attuale nome. Il cuore di questa gemma è la Cappella Palatina, fatta costruire da Ruggero II nel 1130, dall’interno con straordinaria decorazione musiva arabeggiante e soffitto ligneo a muqarnas di pittura fatimita, opera di artisti nordafricani.
Al sontuoso Palazzo dei Normanni fa riscontro altrettanto affascinante San Giovanni degli Eremiti, piccola chiesa (oggi sconsacrata) sormontata da cinque cupolette rosse che le conferiscono un deciso aspetto orientaleggiante, realizzata da architetti arabi alle dipendenze dei re normanni.
A metà tra i due monumenti, la Cattedrale eretta alla fine del XII secolo, altro capolavoro dal predominante stile gotico-catalano quattrocentesco, in cui si inseriscono le absidi normanne, le torri a bifore e colonnine rinascimentali e il capolavoro barocco del portico meridionale (l’attuale ingresso). La stratificazione degli stili per la Sicilia è insomma una sorta di imprinting storico e non una frettolosa e confusionaria mescolanza, com’è nelle intenzioni di molti attuali sostenitori dei melting pot culturali.
Tacendo di mille altri capolavori, da Santa Maria dello Spasimo alle chiese della Magione e di Santa Maria della Catena, fino agli Oratori del Rosario di San Domenico, di San Lorenzo (la “grotta di corallo bianco”) e di Santa Zita, che ospita la rappresentazione in stucco della battaglia di Lepanto, accenniamo almeno alla devotissima e altrettanto splendida rivale di Palermo, Catania.
La città di sant’Agata
Devotissima alla vergine Agata che l’ha salvata dalla lava, la città custodisce il Siculorum Gymnasiom, la prima e per secoli unica università dell’isola. In questo caso, la fusione è non tra stili diversi – a Catania domina il bicolore segnato dalla pietra lavica, tipico di tutta l’area etnea – ma tra fede e sapere, come nel Monastero dei Benedettini, un convento di pietra che ospita le facoltà umanistiche. Del resto, la capacità di risorgere dai propri contrasti estremi è il segno distintivo di una città che presenta al visitatore la bellezza intatta del grumo di cortili e di chiese di via dei Crociferi e che, nel suo passato flagellato da crisi economiche, incursioni di pirati, epidemie, carestie e disastri quali l’eruzione del 1669 e il devastante terremoto del 1693, è stata patria di grandi come Verga, Capuana, De Roberto, Bellini.
Tesori senza fine
Facciamo torto, lo avevamo premesso, a un’infinità di altre bellezze imperdibili. Tra le tante, allo straordinario barocco in tufo arenario di Noto, nel suo cangiante rosato-arancio, che nella luce del tramonto acquista i toni dell’ambra. Allo splendido Duomo normanno di Monreale, dall’abside riccamente decorata in cui troneggia il Cristo Pantocratore, dai mosaici su fondo oro e dal bel chiostro del XII secolo, cinto da 228 colonnine gemine. Oppure a quella di Enna, fino al 1927 nota come Castrogiovanni, dalla traslitterazione storpiata dell’antico Qasr’ Yannahua, a sua volta derivato dal latino Castrum Hennaei. Una provincia che dell’Impero Romano era un granaio tanto importante da pagare un tributo di due milioni di moggi.
Questo testo di Marco Ferrazzoli è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. È possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it