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Il Regno Borbonico per un materasso d’oro

Storia05 Febbraio 2021
Testo dell'audio

La Massoneria entrò in Italia verso la metà del secolo diciottesimo, soprattutto in Meridione, che era l’area a quel tempo più evoluta intellettualmente (grazie alle riforme adottate dall’energico governo di Re Carlo di Borbone) ad opera del vescovo luterano danese, Friedrich Muenter, figlio del pastore Balthasar, anch’egli massone. Muenter fu accolto con curiosità ed interesse da intellettuali di spicco del Regno borbonico (Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Melchiorre Delfico, Mario Pagano, Domenico Cirillo, il marchese di San Severo e molti altri). Le idee massoniche si diffusero velocemente spargendosi anche nel resto della penisola, segno evidente di quanto la mentalità corrente fosse già pronta e ben disposta ad accogliere il messaggio della setta diffuso dal vescovo danese e attecchito rapidamente in ogni angolo d’Italia.

Alla fine del secolo diciottesimo, i francesi, che dominavano Milano, bandirono un concorso sul quesito: «quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia». Lo vinse Melchiorre Gioia, il prete spretato (condannato per aver celebrato, per lucro, più di una Messa al giorno), impostosi su 57 partecipanti. Ebbene, nella dissertazione del Gioia ritroviamo i principi e le idee che Cavour, poco più di mezzo secolo dopo, esprimerà pubblicamente con una certa circospezione, ma con ben maggiore chiarezza negli scambi epistolari privati e nelle istruzioni riservate ai suoi collaboratori diretti.

In proposito è illuminante l’accorata lettera che Cavour scrisse nell’autunno del 1859 ad Antonio Panizzi, dopo aver dato le dimissioni da capo del governo reale piemontese in seguito allo smacco dell’armistizio di Villafranca. In quella lettera Cavour pregava Panizzi di far pressioni sul governo inglese, affinché non fosse restituito al Papa il governo delle Romagne, ove i pochi liberali si erano impadroniti del potere e inscenato grotteschi plebisciti, per far dichiarare l’annessione al Piemonte. Cavour si rivolgeva al potente fuoriuscito Antonio Panizzi, già condannato a morte in contumacia dal governo ducale di Modena per i moti del 1821 e assurto, in virtù di una brillante intelligenza e dei favori di loggia, alla direzione della prestigiosa Biblioteca del British Museum. Panizzi fungeva da intermediario fra il movimento liberale italiano e il governo progressista inglese di Lord Palmerston.

Cavour scriveva, perciò, a Panizzi di far capire agli inglesi ch’era importante togliere al Papa qualsiasi potere temporale, poiché Egli avrebbe sempre privilegiato l’adesione ai principii cristiani rispetto agli interessi statali, di uno Stato che oltre tutto si prefiggesse di ignorare i principi della morale cristiana. Una volta privato del potere temporale, il Pontefice non avrebbe potuto ostacolare l’affermazione progressiva delle nuove idee, che avevano la loro ispirazione nei principi del 1789. L’introduzione dei principi rivoluzionari in Italia sarebbe stata attuata gradualmente ma con determinazione. Per inciso, quest’opera è al giorno d’oggi in via di completamento nella sua versione più radicale ad opera dei governi socialisti d’Europa e delle istituzioni sovranazionali di Bruxelles.

Ippolito Nievo visse questo conflitto fra la maggioranza schiacciante della popolazione italiana da una parte e quella sparuta minoranza liberale, di cui lui stesso faceva parte, dall’altra. Lo visse con una crescente insofferenza, sempre più acuta man mano che andava chiarendosi il quadro politico e istituzionale del nuovo Regno. Non era ancora iniziata la cosiddetta seconda Guerra d’Indipendenza, ma già nell’aria si percepiva come il problema italiano andasse risolto in un modo o nell’altro, perché ne valevano la pace e per l’equilibrio dell’intero Continente. Nievo auspicava sì uno Stato unitario, ma non necessariamente sotto il Piemonte. Era troppo orgoglioso e memore della Serenissima, per non sentirsi umiliato dal dover sottostare ai Savoia. Dopo la pace di Villafranca scrisse il saggio politico Venezia e la libertà d’Italia, ove rivendicò, sin dalla prima riga, il primato che Venezia condivideva con Roma quale città più italiana della Patria nostra.

Insofferente al rigido formalismo dell’esercito sabaudo e ad ogni vincolo di setta, aveva già militato fra i garibaldini nella campagna del 1859: appena ebbe sentore che Garibaldi si sarebbe mosso per altre conquiste, lasciò la penna e si diresse a Genova pronto ad ogni avventura. Si imbarcò sul Lombardo, mantenendo il suo grado di ufficiale subalterno conseguito nella campagna precedente, ma senza alcun incarico specifico.

 

Questo testo di Cesaremaria Glori è tratto dalla rivista Radici Cristiane. Visita il sito radicicristiane.it

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