Il divorzio in Italia: cinquant’anni di una sciagura

Cinquant’anni fa, il 1 dicembre 1970 fu introdotta in Italia la legge n. 898 – “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”, elaborata dal socialista Loris Fortuna e dal liberale Antonio Baslini: la legge sul divorzio.
La legge fu approvata dal Parlamento italiano grazie a una maggioranza di comunisti, socialisti e liberali, ma il governo era quello di centro-sinistra presieduto dal democristiano Emilio Colombo, che non si dimise, né minacciò le dimissioni se fosse passata la legge, ma assunse una posizione di neutralità e la firmò, così come un altro presidente del consiglio democristiano, Giulio Andreotti, avrebbe firmato, otto anni dopo, la legge sull’aborto.
Le responsabilità dei cattolici sono più lontane: risalgono alla Assemblea Costituente dove, nel 1948, grazie all’assenza di 37 deputati democristiani non fu inserito nell’art. 29 della Costituzione il principio dell’indissolubilità del matrimonio. Le responsabilità democristiane non devono fare dimenticare inoltre quelle ecclesiastiche. La massima preoccupazione della Conferenza Episcopale Italiana, di cui era presidente il cardinale Antonio Poma e segretario mons. Enrico Bartoletti non era quella di combattere il divorzio, ma di non rallentare la collaborazione tra cattolici e socialisti.
Il divorzio passò e non solo divise il modo cattolico, ma inflisse una ferita profonda e mai rimarginata al tessuto sociale italiano. Quando un gruppo di cattolici promosse un referendum per abrogare la legge divorzista, ottenne l’appoggio solo di una parte della democrazia cristiana e dei vescovi. In seguito a questo atteggiamento di disimpegno dei cattolici, il divorzio fu confermato nel referendum del 12 maggio 1974. Un santone del cattolicesimo liberale che si chiamava Arturo Carlo Jemolo, scriveva su “La Stampa” del 5 maggio 1974, alla vigilia del referendum: “Non fo pronostici inutili, sull’esito del referendum. Ho una sola certezza, che quell’esito, non muterà nulla nel tessuto della società italiana”.
Jemolo faceva parte di quei profeti che hanno sempre sbagliato le loro previsioni. Basti pensare che in Italia, sino al 1962 l’aumento delle separazioni legali non aveva mai raggiunto annualmente il numero di 5.000, cioè poco più del 1%, rapportato ai circa 400.000 matrimoni allora celebrati annualmente. Ciò che accadde, dopo il 1974, non fu solo l’impennata delle separazioni e dei conseguenti divorzi, ma il declino dei matrimoni, sostituiti dalle convivenze e, tra i matrimoni, il crollo di quelli celebrati con il rito religioso. Secondo i più recenti dati Istat, nel 2018 sono stati celebrati in Italia 195.778 matrimoni, dunque meno della metà di quelli celebrati alla fine degli anni Sessanta e oltre la metà delle nozze – sempre secondo i dati Istat – è stata celebrata con il rito civile (50,1%, pari a 98.182 matrimoni).
La normativa del divorzio che all’inizio prevedeva cinque anni di separazione perché il giudice potesse sciogliere il vincolo, passò nel 1987 a tre anni di separazione e dal 2015 a sei mesi, se la separazione è consensuale, o un anno se non è consensuale. Per rendere più grave ed umiliante lo sfregio inflitto al sacramento del matrimonio, il 20 maggio 2016, è stata introdotta in Italia una legge che riconosce le unioni civili per le coppie dello stesso sesso e, nel 2020 è stata approvata alla Camera una legge sull’omofobia che proibirà di affermare che la famiglia indissolubile composta da un uomo e una donna è l’unica famiglia degna di questo nome, mentre i cosiddetti matrimoni omosessuali rappresentano un capovolgimento dell’ordine naturale e cristiano.
Questo, dopo cinquant’anni, è l’esito di un itinerario iniziato il 1 dicembre 1970, una data che ricordiamo con le lacrime agli occhi levando lo sguardo al modello perenne della Sacra Famiglia che la Madonna indicò a Fatima, il 13 dicembre del 1917, come l’unico ideale che mai tramonta e che sempre riaffermeremo.