Due ricorrenze-simbolo si intrecciano sul calendario

In questi giorni il calendario ha proposto due ricorrenze particolarmente significative.
La prima è stata domenica scorsa, 7 febbraio, anniversario del martirio di trenta frati francescani di Široki Brijeg.
Cosa accadde loro? Erano le ore 15 del 7 febbraio 1945, quando un gruppo di partigiani comunisti giunse presso il santuario intitolato alla Madonna Assunta in Cielo. In quei giorni, il crollo dell’occupazione tedesca dei Balcani scatenò gli uomini di Tito contro i croati. Con minacce e bestemmie cercarono prima di convincere i frati ad abbandonare il proprio abito religioso. Di fronte al loro rifiuto, li condussero, uno dopo l’altro, fuori dal convento: alcuni li fucilarono, altri li finirono con un colpo di pistola alla nuca. L’età media era di 43 anni, ma, tra le vittime, vi furono sei ventenni, un’ottantenne, numerosi docenti dell’annesso ginnasio ed anche malati di tifo. Testimoni oculari – tra cui anche alcuni membri dell’improvvisato plotone di esecuzione (uno dei quali si è convertito, ha un figlio sacerdote ed una figlia suora) – hanno dichiarato che i religiosi abbracciarono la morte, pregando ed intonando litanie alla Madonna. I loro corpi vennero poi cosparsi di benzina, bruciati e poi gettati nel rifugio antiaereo, in giardino.
I partigiani comunisti oltraggiarono e cancellarono la scritta in pietra, invocante Dio e la Vergine, posta all’ingresso del convento, convento che successivamente colpirono con 296 colpi di cannone; venne poi incendiato l’attiguo liceo classico, infine venne distrutta la biblioteca con circa 150 mila volumi, buona parte dei quali documentava la storia, costellata di sofferenze, del popolo croato di Erzegovina.
Il convento di Široki Brijeg era stato costruito nel 1846, sotto la dominazione turca, da dodici frati originari dell’Erzegovina e provenienti da Kresevo, Bosnia. Era considerato un simbolo, il più importante della regione, poiché segno di una fede cattolica sopravvissuta a quattro secoli di dura persecuzione islamica.
L’eccidio dei religiosi e la distruzione del loro convento avrebbero voluto invece significare, per le mani empie resesi responsabili del sacrilego gesto, la fine della missione e della testimonianza dei frati. La struttura venne rasa al suolo proprio nel tentativo disperato di sradicare la fede dal cuore della gente. Il regime comunista di Tito fece di tutto, anche con la forza, per cancellare dalla memoria della popolazione l’accaduto. Proibì di nominare, ricordare o commemorare quei religiosi, i cui corpi rimasero nascosti sotto terra per molti anni. Provvidenzialmente tutto questo non servì, il loro ricordo rimase anzi indelebile. Ancora oggi il santuario di Siroki Brijeg è méta di continui pellegrinaggi. Il complesso, ricostruito e comprendente la chiesa, il convento ed una scuola, risulta tra i luoghi di preghiera e di culto più importanti e più visitati della regione, irrorato da copiosi frutti spirituali, soprattutto in termini di continue, nuove vocazioni.
Sul finire del 1991 fu presentata a Roma la documentazione necessaria, per avviare la causa di beatificazione dei trenta frati martiri. Ma… c’è un ma ed è a questo punto che la loro storia s’intreccia con l’altra data importante proposta in questi giorni dal calendario, quella odierna: esattamente il 10 febbraio 1960, infatti, dopo 15 anni di persecuzione comunista e di maltrattamenti, morì il beato Alojzije Stepinac, cardinale croato, arcivescovo di Zagabria.
Pochi mesi prima, nel maggio 1959, mentre si trovava agli arresti domiciliari, aveva incoronato l’immagine della Vergine di Fatima, inviatagli da Pio XII, certo del trionfo finale sul comunismo: «Ciò che preghiamo e proclamiamo circa la Madre di Dio – Tu sola hai schiacciato tutte le eresie dell’universo intero – tornerà ad essere una realtà nel suo pieno splendore», come scrisse il card. Stepinac in una lettera il 27 settembre 1958.
Quando, nel maggio 1945, la Croazia fu incorporata a forza nella Jugoslavia comunista di Tito, scatenando una nuova persecuzione religiosa contro la Chiesa cattolica, l’arcivescovo Stepinac, figura di grande statura morale, denunciò pubblicamente l’omicidio di numerosi sacerdoti ad opera dei miliziani comunisti. Il regime allora scatenò contro di lui una grande campagna diffamatoria, servendosi di intimidazioni e dei media. Non bastò nemmeno ordire un attentato contro di lui, poiché ne uscì indenne: nel 1946 venne allora arrestato. Il 30 settembre di quell’anno fu intentato contro di lui un processo-farsa. Per nulla intimorito, il 3 ottobre l’arcivescovo Stepinac pronunziò un altro, duro atto d’accusa contro le ingiustizie del regime, contro i suoi crimini, le sue efferatezze, gli oltraggi ai diritti di Dio e della Chiesa: «Se non mi darete ragione voi, me la darà la storia», dichiarò. La sentenza a 16 anni di lavori forzati suscitò vasto sconcerto e vive reazioni non solo in Croazia, ma anche all’estero. Il 19 ottobre fu rinchiuso nella prigione di Lepoglava: «Mi hanno tolto tutto – disse – tranne una cosa sola: la possibilità di alzare al Cielo le mie braccia come Mosè». Restò in galera sino al 5 dicembre 1951, patendo continui maltrattamenti, umiliazioni ed anche diversi tentativi di avvelenamento; poi venne trasferito presso la sua parrocchia natale, quella di Krasic, dove rimase agli arresti domiciliari sino alla morte. Da qui riuscì comunque a promuovere un lavoro pastorale immenso: oltre al tempo dedicato alla preghiera ed a confessare i fedeli di quel villaggio, gli unici che potessero recarsi da lui, scrisse oltre 5 mila lettere e messaggi clandestini, per confermare nella fede i cattolici di Jugoslavia, denunciare al mondo il disegno ateo comunista e mettendo in guardia quei sacerdoti, che, collaborando col regime, favorivano il tentativo del governo di creare una “chiesa” nazionale, separata da Roma. Scrisse il 17 febbraio 1952: «Un’anima santa è in grado di sostenere e salvare il suo Paese, perché le sue preghiere e virtù sono più potenti di tutti gli eserciti della terra». Ed ancora, il 23 aprile 1952 confidò per iscritto ad un convento di suore orsoline quanto importante fosse che tutti pregassero per lui: senza queste incessanti orazioni, «come avrei potuto resistere all’odio satanico di dieci anni di persecuzione da parte dei nemici di Dio?».
Fu creato cardinale da Pio XII nel concistoro del 12 gennaio 1953. Scrisse per l’occasione: «La porpora cardinalizia significa la disponibilità ad offrire il proprio sangue», ribadendo così il proposito di perseverare nella fede, anche sino al martirio. Per questo, non gli fu mai permesso di andare a Roma, nemmeno al conclave del 1958.
A proposito del comunismo, scrisse ancora il primo novembre 1955: «Siamo davanti alla più grande persecuzione contro la Chiesa mai esistita. Abbiamo il diritto di concludere, pertanto, che sopraggiungerà il più grande trionfo della Chiesa in tutta la sua storia». Ed aggiunse il 3 ottobre 1956: «Sono vivamente confortato dal fatto che la devozione alla Santissima Vergine, che ha profonde radici nel nostro popolo, si accresca nella misura in cui si aggrava la persecuzione del comunismo satanico».
Poco prima di morire, il 5 dicembre 1959, scrisse al tribunale comunista di Osijek, che gli intimava di deporre in un processo contro ecclesiastici: «Se il governo giudica che io muoia con eccessiva lentezza, ordini pure la mia liquidazione fisica, così come ha ordinato quella giuridica 14 anni fa. San Cipriano diede 14 monete d’oro al boia che doveva decapitarlo. Io non ho alcun soldo, posso soltanto pregare per chi eventualmente mi eseguirà, chiedendo a Iddio che lo perdoni per l’eternità e mi permetta di morire in pace». Ed aggiunse poco più tardi, il 18 gennaio 1960, in una lettera a don Viktor Komericki: «Se volessimo vendere la faccia e l’anima, oggi stesso riceveremmo le onorificenze. Ma a tutti noi sempre deve essere presente il memento di Cristo: “Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?” (Mc 8, 36)».
Venerato in tutto il mondo come martire della fede, anima del popolo croato, simbolo della resistenza al comunismo, il beato Stepinac si trova ora sepolto nella “sua” cattedrale, a Zagabria. È stato beatificato nel 1998 da Giovanni Paolo II, alla presenza di mezzo milione di fedeli. Ma la canonizzazione pare debba attendere: voluta dalla Croazia, trova il fermo niet della Serbia. Il presidente ultranazionalista Tomislav Nikolič nel 2015 disse chiaramente all’inviato speciale del Papa, il card. Kurt Koch, che farlo diventare santo significherebbe acuire le tensioni tra Serbia e Croazia e, di conseguenza, tra Chiesa cattolica e ortodossa. Ciò ha indotto per ora il Vaticano a prender tempo, costituendo un gruppo di esperti per valutare tutto e cercare di creare un clima di comprensione, iniziative che allontanano solo la soluzione della vexata quaestio. E, con essa, per lo stesso motivo ed a maggior ragione ancora più lontana sembra esser la causa di beatificazione anche dei frati francescani di Široki Brijeg e di molti altri, sconosciuti ai più.
Certo, il presidente della Serbia ora è cambiato, ma il clima politico sembra essere rimasto lo stesso. Il beato Stepinac non si piegò mai dinanzi ai potenti di questo mondo, campioni dell’ideologia comunista. Il Vaticano invece sì?