Dalle guerre alla “battaglia dei nomi”

Nel 1762, nel quadro della Guerra dei sette anni, le truppe britanniche occuparono la capitale delle Filippine, Manila, che venne restituita poi alla dominazione spagnola l’anno seguente grazie al Trattato di Parigi. Nel 1764 la Gran Bretagna lasciò il Paese, temendo l’insorgere, in caso contrario, di un nuovo conflitto. Tutto questo tuttavia alimentò nuove spinte indipendentistiche, che presero corpo in modo organizzato molto più tardi, attorno all’aprile 1896: a frenare la cosiddetta Rivoluzione filippina furono tuttavia dissidi sorti all’interno dei gruppi autonomisti.
Oltre un secolo dopo, nel quadro della guerra ispano-americana, a Manila le forze spagnole vennero sconfitte da quelle degli Stati Uniti, i quali tuttavia non poterono prendere possesso delle Filippine, in quanto queste subito avevano proclamato la propria indipendenza e costituito la prima repubblica, proclamando la prima Costituzione democratica del continente asiatico. Dal punto di vista della giurisdizione ecclesiastica, il distacco dal patronato reale spagnolo comportò la trasformazione di tutte le antiche chiese in arcidiocesi.
Col trattato firmato a Parigi nel 1898 per porre formalmente fine al conflitto ispano-americano, il controllo delle Filippine passò agli Usa. Il governo rivoluzionario, però, benché non riconosciuto dalle altre nazioni, il 2 giugno 1899 proclamò l’inizio della Guerra filippino-americana. Le perdite umane furono ingenti, soprattutto da parte locale, non solo sul fronte, bensì dovute anche alla fame, alla povertà ed alle malattie. Il leader locale, Emilio Aguinaldo, venne catturato il 23 marzo 1901 e trasferito a Manila. Convintosi ormai del fatto che proseguire gli scontri sarebbe stato inutile, giurò fedeltà agli Stati Uniti ed invitò i suoi connazionali a deporre le armi. Nel 1902 le Filippine ottennero una propria autonomia amministrativa, ma con limitati poteri legislativi ed esecutivi.
Le cose cambiarono con l’elezione di Woodrow Wilson alla presidenza degli Stati Uniti, nel 1913: egli ritenne necessario avviare un processo che conducesse gradualmente le Filippine alla propria, totale indipendenza. Nel marzo 1935 venne approvata dal nuovo presidente Usa, Franklin Delano Roosevelt, la Costituzione filippina, mentre il 14 maggio di quell’anno venne formato il nuovo governo nazionale, seguito a ruota dall’istituzione del Commonwealth con presidente Manuel L. Quezon, già a capo del Senato per circa vent’anni. Si trattò di un forte esecutivo con un’Assemblea nazionale unicamerale ed una Corte Suprema, composta per la prima volta interamente da filippini.
Nel 2010 alla guida del Paese fu posto Benigno Aquino III, figlio del leader assassinato. Egli assicurò un periodo di crescita economica al Paese, ma venne indebolito dalle pesanti accuse di clientelismo, che fecero trionfare alle presidenziali del 2016 il candidato di sinistra Rodrigo Duterte, rivelatosi problematico per le proprie posizioni fortemente anti-cattoliche: ha, ad esempio, chiesto pubblicamente di ammazzare i Vescovi in quanto definiti «inutili», bollato la Chiesa d’ipocrisia ed i sacerdoti d’omosessualità. Tutto questo ha suscitato una vasta indignazione, anche perché nelle Filippine il 92% della popolazione è cristiano.
Non potendo sradicare una fede tanto profonda ha avuto inizio la “battaglia dei nomi”, poiché «nomen omen», come già affermarono gli antichi latini. Così nel 2017 un membro del Congresso, Gary Alejano, ha pubblicamente definito un problema il nome del Paese, “Filippine”, a suo avviso intollerabile, in quanto riferito ad un sovrano spagnolo del XVI secolo. «Se vogliamo essere veramente indipendenti, dobbiamo buttare via i legami col colonialismo, creando la nostra identità nazionale», ha dichiarato.
Questo testo di Luigi Bertoldi è tratto dalla rivista Radici Cristiane. Visita il sito radicicristiane.it