Adoriamo la Santa Croce di Cristo!

Nella rivelazione della Croce il Venerdì Santo, la Chiesa richiama tre volte tutti i fedeli con le parole: Ecce lignum Crucis, in quo salus mundi pependit. Venite adoremus! – “Ecco il legno della Croce, al quale fu appeso il Salvatore del mondo. Venite, adoriamo!” Questa esortazione la vogliamo far nostra: soffermiamoci un momento, con profondo timore reverenziale e grato ossequio, ai piedi della croce piantata sul Golgota, il monte della mirra e il colle dell’incenso (Cant. 4,6).
Sulla cima del Golgota, la Passione del Sommo Sacerdote terminò in continua preghiera sacrificale: perciò il luogo della crocifissione è un monte di mirra, cioè un monte che portò al Salvatore la mirra del più amaro supplizio nel corpo e delle sofferenze dell’anima; è un colle dell’incenso da dove l’amabile profumo della preghiera e la fiamma del sacrificio espiatorio salivano ininterrottamente dal Cuore divino di Gesù al Cielo. Mettiti in spirito sul Golgota, guarda l’Agnello sanguinante sacrificato e medita se ci possa essere un dolore uguale al Suo dolore.
Per circa diciotto ore – durante la notte e il giorno della morte – l’Uomo-Dio fu immerso in un imperscrutabile mare di amarissimi dolori. Ed erano immensi questi dolori, tanto pungenti, insostenibili per il Suo corpo gentile e nobile, per la Sua purissima e sensibile anima! Le incomparabili qualità della santissima umanità di Gesù sembravano fatte apposta per assaporare veramente l’amarezza della sofferenza: esse, pertanto, resero ancora più tagliente la percezione del dolore e dell’umiliazione.
Attraverso le stazioni della Via Crucis insanguinata, il divino Agnello del sacrificio fu trascinato al mattatoio senza pietà. La Sua anima era satura di paura e di angoscia, di obbrobrio e dolore, il Suo cuore era come cera che si scioglie nelle Sue interiora e tutte le Sue ossa erano slogate (Sal. 21,15); il Suo corpo fu spinto e bastonato, lacerato e martirizzato, spogliato vergognosamente e umiliato col vestito, il Suo volto coperto di sputi e insozzato, il Suo capo punto da spini acuminati, le Sue mani e i piedi trapassati da orribili chiodi. “Dalla pianta del piede fino alla testa non c’è in Esso nulla di sano: ferita e lividura e contusione recenti, né curate, né fasciate, né medicate con olio” (Is. 1,6).
Egli, Che era più nobile nell’aspetto di ogni altro essere umano, dalle Cui labbra usciva grazia e amorevolezza, Che Dio aveva colmato di benedizioni e unto con l’olio di esultanza: Egli, sul Golgota, è diventato l’uomo dei dolori, come un arbusto in un terreno arido, senza forma e grazia, un verme e non un uomo, vituperato dalla gente e obbrobrio del popolo, di orribile aspetto, irriconoscibile, come da Dio percosso e stritolato (Sal. 21 e 44; Is. 53).
Nella sofferenza e nel dolore, nell’indicibile miseria, nel bruciore selvaggio delle ferite, nel braciere struggente della sete, l’Agnello innocente sacrificato pende per tre lunghe ore sul duro legno della croce dissanguandosi nella lenta agonia. Il braciere in cui il divino Agnello viene consumato, è quel fuoco che il Signore stesso ha portato dal Cielo sulla Terra e che Egli ha acceso: il fuoco dell’amore di Dio e del prossimo.
Questo fuoco d’amore circonda il Suo capo incoronato di spine, divampa in fiamme lucenti attorno al Suo corpo flagellato, fluisce abbondante dai Suoi arti perforati e dal Suo cuore squarciato. Sant’Ignazio c’insegna a pregare “per il dolore con il Cristo pieno di dolori, per lo sfinimento con il Cristo abbattuto, per le lacrime, per la sofferenza interiore con il Cristo Che ha sofferto un immenso supplizio per noi”.
Come potrebbe essere intenerito e mosso ad un amore ricambiato il nostro cuore tanto duro e pietrificato, come potrebbe essere spinto al pentimento e al dolore, al rimorso dei peccati, se non sul monte Calvario, guardando la Croce dove il Redentore ha dimostrato a noi, povere creature perdute, il Suo amore che non teme nessun sacrificio, che non conosce misura né confini?
“Cos’altro è la Croce con Gesù morente se non il libro aperto dei nostri peccati? Cristo, Che non conosceva peccato, come scrive l’Apostolo (2Cor. 5,21), non è stato forse fatto da Dio peccato per noi? Ma quando io apro questo libro della Croce, scorgo dentro tutti i miei peccati! Vedo lì le mani forate e riconosco tutte le mie azioni perverse; guardo i piedi perforati, così penso a tutte le vie cattive che ho percorso; se guardo questo corpo diventato tutto piaga, ecco che ho davanti a me tutte le mie mollezze e tutta la mia sensualità; contemplo questo capo insanguinato coronato di spine e ho davanti l’orrendo specchio della mia vanità, della mia vanagloria peccaminosa, e vedo ciò attraverso il cuore aperto dalla lancia: ah, esso mi rivela tutta la mia insensibilità e infedeltà nei confronti di Dio, tutta la mia crudeltà e impazienza, tutta la mia inconciliabilità nei confronti degli uomini!” (Molitor).
“Il Redentore sopporta i nostri travagli e sostiene i nostri dolori” sulla Croce; e malgrado ciò, il Suo sconfinato amore viene ricambiato con freddezza e insensibilità, con ingratitudine e malcostume di ogni sorta: questo addolora e mortifica il Suo cuore divino con un’amarezza mille volte maggiore delle pene della passione. Ma ciò deve anche spingerci a compiere atti di compensazione e penitenza per l’amore del Salvatore disprezzato, contemplando e venerando piamente l’immensità della Sua sofferenza, poiché ciò procura un’indicibile consolazione al Suo cuore. Ma per qual motivo un tale abisso di sofferenza, di lamento, di umiliazione e abbandono, di sangue e ferite?
Certamente non era necessario per ricompensare l’intero prezzo della Redenzione: a ciò era sufficiente la minima sofferenza, ogni preghiera, ogni passo, ogni lacrima, ogni sospiro del Redentore, poiché tutto il Suo agire e soffrire, data l’infinita dignità della Sua persona, era infinitamente prezioso e meritorio ed espiatorio davanti a Dio.
Ciononostante il Signore ha versato prodigamente il Suo prezioso sangue nei sette adorabili misteri della circoncisione, dell’angoscia della morte, della flagellazione, nella coronazione di spine, nella via della Croce, della crocifissione e del Cuore divino trafitto!
Questo Egli l’ha fatto per amor di Dio e dell’umanità; infatti, in qual modo la divina Maestà fu maggiormente glorificata, la salvezza degli uomini con più effetto e forza assicurata, se non tramite un tale sacrificio, tanto amaro, cruento e doloroso, come quello compiuto sulla Croce dal Figlio di Dio? Il grande mistero di Dio e di Cristo (1Cor. 2,7; Ef. 3,4), l’opera della Redenzione, come miracolo della divina onnipotenza, sapienza e amore doveva essere perfetto sotto tutti gli aspetti e in realtà è tanto profondo, meraviglioso e ricco che perfino gli angeli desiderano contemplarlo (1Piet. 1,12).
Perciò, attraverso i millenni dell’eternità, esso sarà per il mondo angelico e per quello umano un inesauribile oggetto di ammirazione e adorazione, nella cui estasi si sprofondano tutti gli spiriti beati, con grande giubilo, timore reverenziale, e rinnovata venerazione. Nell’inno solenne della consacrazione del cero pasquale, la Chiesa canta con fervore il glorioso Deo gratias (“Grazie a Dio”) per l’indescrivibile prezioso dono dell’Incarnazione e per l’ineffabile, felice grazia della Redenzione.
Fin dal primo millennio la liturgia del Sabato Santo viene celebrata durante la notte prima di Pasqua. Il cero pasquale decorato è più grosso delle altre candele in uso nella liturgia normale ed è per questo chiamato columna (“colonna”) nel canto che annuncia la gioiosa festa di Pasqua. Esso simboleggia la figura del Redentore, come Egli riposa nel sepolcro (prima che sia acceso) e come rifulge nello splendore della Resurrezione (dopo l’accensione).
La Resurrezione gloriosa del Signore viene esemplificata con la solenne accensione del cero. I cinque grani d’incenso che sono fissati in forma di croce sul cero ricordano le cinque gloriose ferite del Redentore trasfigurato. Il cero, con la sua luminosa fiamma bianca, fissato su un alto candeliere, sta a indicare il Risorto che guida i peregrini verso la Patria eterna come un tempo Egli precedeva gli Israeliti attraverso il deserto, di notte come una colonna di fuoco e di giorno in forma di nube (cioè una nube che di notte era infuocata e di giorno appariva scura), per accompagnarli fino alla terra Promessa.
Con un canto di lode (Exultet) la Chiesa giubilante esterna il suo entusiasmo, la sua gioia di vittoria e i suoi sentimenti straripanti di gratitudine. Il contenuto e la melodia del canto sono grandiosi, sostenuti da una fantasia eccelsa, da un linguaggio poetico energico ed entusiasta, ispirato dalla solenne notte della Resurrezione. “Esulti ora l’angelica schiera dei cieli! Esultino i ministri divini e risuoni la tromba salvifica per la vittoria di sì gran Re! Gioisca la Terra irradiata da tanti fulgori e illuminata dallo splendore del Re eterno, esulti per essersi liberata dalla tenebra in tutta la sua estensione. Si rallegri anche la madre Chiesa, irradiata dallo splendore di tanta luce, e quest’aula echeggi delle alte voci dei fedeli”.
Segue quindi l’inno di trionfo della notte pasquale nella forma e nel tono del Prefazio: “Perché è cosa veramente degna e giusta con tutto lo slancio del cuore e della mente e con l’ausilio della voce proclamare la gloria di Dio invisibile Padre onnipotente e del Figlio unigenito nostro Signore Gesù Cristo, il quale in nostra vece pagò all’Eterno Padre il debito di Adamo e col Sangue innocente cancellò l’obbligazione contratta con l’antico peccato. Sono queste, infatti, le feste pasquali, in cui è sacrificato il vero Agnello e il Suo Sangue è destinato agli stipiti delle porte.
È questa la notte in cui, conducendo fuori dall’Egitto i nostri padri, figli d’Israele, li facesti passare attraverso il Mar Rosso a piedi asciutti. È questa dunque la notte che ha rimosso le tenebre del peccato con la luce della colonna di fuoco. È questa la notte che restituisce alla Grazia i credenti in Cristo su tutta la terra e li riunisce alla santità, essi che erano allontanati dai vizi del mondo e dalle tenebre del peccato.
È questa la notte in cui, spezzate le catene della morte, Cristo risorge vittorioso dagli inferi. A nulla avrebbe giovato a noi l’esser nati, se non ci fosse toccato il bene della Redenzione. O meravigliosa condiscendenza della Tua misericordia verso di noi! O inestimabile amore di carità! Per redimere il servo consegnasti il Figlio! O peccato di Adamo, certo necessario, che è stato cancellato con la morte di Cristo! O colpa felice, alla quale fu concesso di avere tale e tanto Redentore! O notte beata, alla quale sola fu concesso di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo risuscitò dalla morte!
È questa la notte di cui fu scritto: e la notte sarà illuminata come giorno, e ancora: la notte sarà la mia luce nella felicità. E dunque la santificazione di questa notte disperde i delitti, lava le colpe e ridà l’innocenza ai traviati, letizia agli afflitti; dissipa gli odi, procura la concordia, piega le potenze. Accetta dunque, Padre Santo, in questa notte di grazia, il sacrificio vespertino di questa fiamma che la santa Chiesa per mano dei suoi ministri a te porge in questa solenne offerta del cero, frutto di operosità delle api”.
Dopo aver acceso il cero, il diacono continua: “Già conosciamo gli annunci di questa colonna che la vivida fiamma accende a onore di Dio. Fiamma che, sebbene spartita, non conosce diminuzione della luce distribuita: si alimenta delle molli cere che l’ape madre ha prodotto per formare la materia di questa preziosa lampada“. Quando le candele della chiesa sono state tutte accese dalla fiamma del cero pasquale, l’annuncio della Pasqua termina con un rinnovato inno alla notte della Resurrezione: “Ti preghiamo, dunque, Signore, che questo cero, offerto in onore del Tuo nome per illuminare l’oscurità di questa notte, risplenda di luce che mai si spegne. Salga a te come profumo soave, si confonda con le stelle del cielo.
Lo trovi acceso la stella del mattino, questa stella che non conosce tramonto: Cristo, Tuo Figlio, Che risuscitato dai morti fa risplendere sugli uomini la Sua luce serena e vive e regna nei secoli dei secoli. Amen” (Mess. Romano).
“Oh eterna Sapienza, ben capisco chi desidera un maggiore compenso e l’eterna salvezza, chi brama una più alta scienza e più profonda saggezza; chi rimane di buon animo nella buona e nella cattiva sorte, sentendosi in piena sicurezza davanti a tutti i mali, e vuole avere un sorso della Tua amara sofferenza e singolare dolcezza; questi deve tenere Te, il Gesù crocefisso, sempre davanti agli occhi del suo spirito e lì vedere sé stesso come in uno specchio, e ordinare di conseguenza tutta la propria vita. Ah, quanto sei gentile e amabile Signore, guidami attraverso il bene e il male di questo mondo fino a Te e alla Tua Croce: completa in me la più perfetta conformità alla Tua Croce, affinché l’anima mia, a Te unita, Ti contempli nel Tuo più sublime splendore” (Seuse).