Pavia, una città ospedaliera

Oltre che per il diritto, Pavia è ancora oggi famosa per il suo Policlinico Universitario, all’avanguardia in molti settori della medicina: il San Matteo, il cui simbolo è Cristo crocifisso (patiens) che risorge dalla tomba (a significare che morte e resurrezione stanno insieme); il Cristo che fu medicus, infirmus et patiens e che ha insegnato all’Occidente l’arte dell’assistenza e della cura.
Il San Matteo, primo degli ospedali moderni
Il San Matteo è infatti, come l’istituzione ospedaliera in genere, una creazione della fede cristiana, dal momento che il mondo antico, pagano, non conosceva nulla di simile.
L’hospitale magnum Sancti Mathei sive de la Pietate nasce ad opera della omonima fraternita laicale, dedita alla meditazione della Passione di Cristo e della pietas di Maria e Giovanni, nel giugno del 1449, e si configura come atto di consolidamento e nello stesso tempo di superamento del sistema ospedaliero medievale.
L’anima dell’iniziativa, insieme ai membri della citata confraternita, è un frate domenicano, Domenico di Catalogna, il cui operato, come predicatore, come inquisitore, come uomo dedito alla cura degli appestati, è attestato in varie città dell’Italia settentrionale.
La sua intuizione, sostenuta dalle donazioni dei fedeli, dal potere civile, dal vescovo locale e dal pontefice dell’epoca, Nicolò V, che concede le indulgenze a coloro che dedichino le loro persone o il loro beni all’opera di pietà, è di grande portata e fa del San Matteo di Pavia uno dei primissimi ospedali moderni.
Il San Matteo, infatti, vuole superare la frammentarietà delle strutture caritatevoli medievali, per riunire in un solo “hospital grande” la cura dei malati non cronici, e quindi guaribili.
Il San Matteo sorge dunque nell’alveo della pietà cristiana, con il contributo di chierici, mercanti, artigiani, avvocati ecc., messi insieme dalla stessa fede, «sub vocabolo pietatis pro peregrinis hospitandis, pauperibus recipiendis, egrotis medicandis, infantibus quorum parentum nomina ignoratur lactandis ac nutriendis».
Ma delle quattro funzioni dichiarate, tipiche già delle strutture medievali, il San Matteo privilegia sin dal principio la cura degli infermi curabili. Al punto che ben presto quelli incurabili vengono sistematicamente respinti e mandati in altre strutture.
Quanto ai poveri, piuttosto che ricoverarli all’interno dell’istituto, il che determinerebbe una promiscuità dannosa per l’aspetto sanitario, si preferisce soccorrerli con distribuzioni di viveri, indumenti, denaro o altro, attuando una prima distinzione tra pauperes et infirmi, assente nelle strutture caritative più antiche, in nome di un maggior sviluppo terapeutico e scientifico.
La Chiesa è madre degli Ospedali
Pavia ha, insieme a Milano, un ruolo chiave, non solo in Italia, ma in Europa e quindi nel mondo, nel passaggio dall’“ospedale della carità” all’“ospedale della cura”, la cosiddetta “fabbrica della salute”.
Interessante notare che come l’autorità religiosa, l’arcivescovo Rampini, è il motore di questo progresso a Milano, così anche a Pavia è il già citato fra Domenico, insieme certamente ad altri, a battersi affinché vengano accolti nell’ospedale solo malati «decumbentes de infirmitate curabili».
È un fatto storico che la carità cristiana ha generato gli ospedali e che grazie ad essi, nel tempo, è decollato lo sviluppo della medicina, che è dunque figlio non solo di grandi ingegni che hanno fatto le singole scoperte, ma prima ancora del grande amore che le ha rese possibili.
La supremazia medica dell’Occidente sulle altre culture e le altre medicine sta proprio qui: nell’ospedale, luogo eminente della carità e dell’attenzione verso i fratelli.
All’interno dell’ospedale di Pavia operano l’infirmarius generalis e gli altri servitores, che possono essere membri della confraternita o meno; inoltre vi sono dedicati o dedicate, cioè persone che rinunciano al secolo e ai propri beni, per rimanere tutta la vita al servizio degli infermi.
Tutti, dal personale, ai malati, ai sacerdoti, vivono l’ospedale come luogo di cura, non solamente del corpo, ma anche dello spirito. I malati vengono invitati a confessarsi al momento del ricovero, e vengono assistiti anche rispetto alle loro esigenze spirituali; i dedicati professano la loro scelta dopo una cerimonia in cui promettono di offrire se stessi, “per amore di Cristo”, «in obsequium infirmorum», secondo gli statuti; i presbiteri, presenti in numero di due o tre, «non loquaces, non ioculatores sed silentium amantes et orationem», devono assicurare i sacramenti, ma anche collaborare con i servitores infirmarie che non possono rivolgersi a loro sia di giorno che di notte per chiedere di prestare soccorso agli infermi.
Questo testo di Francesco Agnoli è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. È possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it