News del 01/10/2018: Partecipò agli attentati del 1995, già libero jihadista
Inutile stupirsi. La diffusione della jihad in Occidente dipende spesso, in parte, dall’ingenuità, travestita di buonismo, delle nostre stesse istituzioni. Come dimostra la scarcerazione, avvenuta in Francia, di Karim Koussa, il 46enne franco-algerino ritenuto responsabile, assieme a complici, dell’ondata di attentati avvenuti nell’estate del 1995. Lo scorso 22 settembre è stato rilasciato dal penitenziario di Moulins, nel Dipartimento dell’Allier. Non si tratta di una struttura detentiva qualsiasi, bensì di quella che tecnicamente viene definita una «maison centrale», deputata quindi ad ospitare i soggetti più pericolosi o con scarse possibilità di reinserimento sociale. Koussa era tra quelli.
L’uomo, originario di Vaulx-en-Velin, era stato arrestato nell’ottobre di 23 anni fa, poiché ritenuto coinvolto nella strage, consumatasi il 25 luglio di quell’anno a Parigi, presso la stazione Rfr di Saint-Michel: la bomba, qui esplosa, provocò 8 morti e 117 feriti. L’accaduto venne rivendicato dal Gia, il Gruppo islamico armato algerino, di cui, oltre a lui, facevan parte Khaled Kelkal, Boualem Bensaïd, Smaïn Aït Ali Belkacem ed altri.
Koussa conosceva bene Khaled Kelkal, nome noto agli inquirenti. I due avevano studiato insieme sino alla maturità. Koussa, dopo essersi addestrato tra il 1989 ed il 1998 presso i campi dei mujaheddin, mantenne con lui i contatti, sino a diventarne complice. Con lui, con Abdelkader Bouhadjar e con Abdelkader Maameri, prese parte alla sparatoria avvenuta il 27 settembre al passo del Malval, nei pressi di Lione, consentendo a Kelkal di darsi alla fuga. Una fuga breve: due giorni dopo, il giorno 29, è stato intercettato dalle forze dell’ordine ancora lì, nella stessa zona. Quella volta non è riuscito a passarla liscia, quella volta è stato freddato.
Koussa, no. Lui è finito in carcere poche settimane dopo. Processato nel 2000 per terrorismo, per partecipazione ad un’organizzazione criminale intenta ad organizzare attentati e per omicidio di pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, è stato condannato in prima istanza a trent’anni di carcere. Di questi, venti li ha trascorsi in un regime detentivo duro e senza benefici, né sconti di pena. Poi le cose cominciarono a cambiare, nonostante ancora oggi, all’interno del carcere, i suoi compagni di reclusione ed il personale siano convinti ch’egli non abbia mai rinnegato la propria militanza jihadista, nemmeno dopo tutto questo tempo. Ma ora c’è una differenza: ora, lui, è libero.