Musica sacra al bivio

Nei più di 50 anni che sono seguiti al Concilio Vaticano II, uno dei temi che più ha tenuto banco è stato senz’altro quello della musica per la liturgia, che anche viene chiamata “musica sacra”. Lasciamo perdere per ora le diatribe terminologiche, che ci porterebbero lontano. Comunque la vogliamo chiamare, dobbiamo riconoscere che la musica per il servizio divino ha conosciuto una crisi da cui non riesce ancora a venire fuori. Questo perché il Concilio è stato usato ed abusato, spesso a sproposito, per portare avanti istanze che sono frutto di una lettura veramente ideologica dei suoi documenti, come quello sulla liturgia.
Io non entro nella questione ermeneutica della grande assise ecumenica, in quanto altri si sono dedicati a questo tema, con spesso opposte sensibilità e vedo come questo tema stia tenendo banco su numerosi blog e riviste. Mi limito a dire che comunque, partendo da una lettura del sesto capitolo della Costituzione Conciliare Sacrosanctum Concilium, il travisamento è stato totale. Si è messa da parte, anzi avversata la tradizione musicale della Chiesa per dei sottoprodotti della musica commerciale. Possiamo leggere cento volte quel sesto capitolo, non sarà mai possibile una lettura che giustifica l’andamento corrente. Spero di pubblicare presto il mio commento al sesto capitolo della Sacrosanctum Concilium, che ho recentemente completato.
Come è stato possibile? Perché chi poteva non ha fatto nulla? Vorrei avere una risposta che spiega lo stato delle cose. Si è pensato in questo modo di “servire il popolo” – se mi permettete di citare Mao Zadong -, ma invece lo si è depauperato di una musica veramente degna della celebrazione che lo avrebbe aiutato ad elevarsi ancora più alla Maestà Divina. Non sono tra coloro che sostengono che si debba eseguire solo canto gregoriano e polifonia classica nella celebrazione, questo è un altro mito di segno opposto, spesso sbandierato dalle fazioni opposte a coloro che hanno devastato la musica sacra.
I documenti dei Papi, a partire dal famoso Motu Proprio di San Pio X del 22 novembre 1903, ci hanno offerto quei due repertori come modelli esemplari, certamente da tenere presenti e da eseguire dove possibile, ma senza che si fosse frenato quanto di buono i compositori della contemporaneità potevano produrre. Ci sono ancora oggi validi compositori che potrebbero contribuire con la loro opera al tesoro della Chiesa, un tesoro da conservare e da promuovere. Ma come è questo possibile quando da una parte si chiede solo musica dozzinale mentre dall’altra si ha paura del nuovo perché lo si identifica con il brutto? Questi sono gravi errori, errori di tipo diverso ma che portano a conseguenze nefaste per la vita della Chiesa.
Si penserà che gli errori dei novatori devono essere giudicati più gravi, ma io vorrei anche far riflettere sul fatto che l’immobilismo di alcuni dall’altra parte non è errore meno grave. Se uno studia lo sviluppo della musica per la liturgia, si rende conto di come in ogni epoca la Chiesa ha accettato nuove produzioni musicali e parte di esse hanno arricchito, rinnovato, ravvivato il repertorio tradizionale: nova et vetera. Certamente, la paura è comprensibile visto lo stato della situazione. Ma chi ama la tradizione deve amarla come cosa viva, non come un museo dove andare a vedere le opere d’arte del passato. Ricordiamo che i grandi compositori di musica sacra lo sono stati proprio perché non hanno temuto di misurarsi con la tradizione, con rispetto e venerazione.
La tradizione ci feconda, è sorgente di sempre nuova bellezza. Quindi, se giustamente esecriamo quanto proposto da liturgisti familiari più con il modernismo che con la tradizione della Chiesa, dall’altra chiediamoci se a volte la paura non ci impedisce di metterci alla scuola della tradizione che è non solo rispetto e fruizione di un repertorio tradizionale, ma anche sorgente sempre fresca e nuova. Chi ama la tradizione non ha paura del nuovo, anzi, essa ti da quell’entusiasmo che ravviva l’ardore e la temerarietà per nuove imprese artistiche.
Ci sono composizioni che parlano un linguaggio più contemporaneo (nel senso bello e alto del termine, non in quello delle avanguardie) e che sono degnissime di figurare nella liturgia. Si devono incoraggiare nuove composizioni anche per la liturgia nella forma straordinaria, perché così è sempre stato. Anche il movimento Ceciliano, che certamente indicava il canto gregoriano e la polifonia classica come punti di riferimento imprescindibili, ha avuto schiere di compositori che hanno contribuito con tante nuove composizioni al repertorio della Chiesa. Non tutte erano di altissima qualità, ma questo fa parte di ogni produzione artistica, non è qualcosa che può essere evitato.
L’alto e il basso fanno parte della vita, anche di quella artistica. Il problema è quando è tutto livellato sul basso, che diviene il criterio di discernimento. Dobbiamo avere il coraggio di osare per mostrare la vitalità della tradizione, che essa non è nel passato, ma nell’eterno. Ne parlo anche in uno dei miei libri recenti, Cantate inni con arte e con suono melodioso, in cui rifletto sul coro della Cappella Sistina. E in effetti come esempio recente indicherei il mio grande ed indimenticato Maestro, Cardinale Domenico Bartolucci, un vero genio della musica sacra.
Non voglio dire che sia incompreso, in quanto nel panorama attuale purtroppo non c’è molto da comprendere, uno come lui è piuttosto fuori luogo in paragone con repertori musicali che vengono proposti. Si mandano avanti repertori di musica commerciale, sentimentalistica, puramente utilitaristica. Uno come lui, che c’entra con questo? E purtroppo la complicità è anche di case editrici “cattoliche”, uffici liturgici, liturgisti compiacenti. Tutte le istituzioni artistiche e musicali qui in Italia che fanno capo alla Chiesa cattolica, sono in una fase di declino inesorabile, intrappolate tra mediocrità e clericalismo rampante, malgrado la narrativa dominante tutta in favore dei laici, ma solo a parole.
Questo testo di Aurelio Porfiri è tratto dalla rivista Radici Cristiane. Visita radicicristiane.it