L’ora della verità

Nel linguaggio del catechismo si dà il nome di novissimi agli ultimi avvenimenti e situazioni che contraddistinguono l’esistenza della persona. Essi sono la morte, il giudizio, l’inferno o dannazione eterna, la gloria o beatitudine eterna e, transitoriamente, il purgatorio.
Un’esperienza dolorosa
Parliamo questa volta della morte, termine definitivo dell’esistenza degli esseri viventi materiali. Nel caso dell’uomo, la morte è la separazione dell’anima dal corpo, ma essa riguarda solo il corpo poiché l’anima, essendo spirituale, è immortale.
La morte del corpo è il termine di un processo, più o meno lento, che fa sì che un organismo vada deteriorandosi e perdendo la caratteristica di unità vitale che gli è propria. In genere la morte è preceduta da malattia e da progressivo invecchiamento, ma ci sono casi in cui avviene tramite un fatto violento, che tronca rapidamente o istantaneamente l’esistenza.
Per l’essere umano, il sopraggiungere della morte rappresenta una esperienza afflittiva sia a causa dei dolori fisici che di solito l’accompagnano che per la consapevolezza di rottura imminente dell’esperienza vitale, segnata da viavai, gioie, tristezze, successi e rovesci, convivenza con altri, possesso di determinati beni, ecc.
La morte mette in evidenza tutta la fragilità dell’esistenza umana e chiama a fare, sia a chi la patisce che a coloro che gli sono vicini, un bilancio della vita con base nei principi che permettono di qualificare le azioni come positive o negative.
L’ora della morte è l’ora della verità.
Di fronte alla morte molte cose e situazioni che a suo tempo ci sembravano importanti, appaiono prive di valore; scelte ritenute azzeccate e portatrici di grandi vantaggi, vengono viste come decisioni erronee e generatrici d’infelicità. Vediamo con profondo dolore le omissioni di atti che avremmo potuto e dovuto compiere, ma che sono rimasti solo buone intenzioni, non realizzate a causa di ignoranza, incuria, pigrizia, egoismo, rispetto umano.
Un segno di saggezza cristiana
Queste verità, ora dolorosamente palesi, possono diventare un’eccellente opportunità per il sincero pentimento e, a volte, anche per riparare il danno arrecato o il bene omesso. Ma non sempre la morte sopraggiunge in modo che ci sia il tempo sufficiente per mettere ordine, tramite un efficace pentimento, negli sbagli di una vita. Perciò è segno di saggezza cristiana l’avere sempre presente in mente quella morte che si avvicina a ogni istante. «In tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato» (Sir. 7,36).
All’ora della morte, come del resto lungo tutta la nostra vita, è necessario ricorrere alla misericordia di Dio e offrire un cuore pentito e umile, confidando non già nei nostri propri meriti bensì in quelli di Gesù Cristo, nostro Salvatore, che ci hanno riscattati dal potere del Maligno e del peccato grazie al suo Prezioso Sangue (cfr. 1 Cor. 6,20; 7,23; 1 Pt. 1,19; Ap. 5,9).
L’unzione degli infermi
Qualora un cristiano sia colpito da una malattia che mette la sua vita a repentaglio o giunge a una età che di per sé lo avvicina alla morte, deve chiedere a un sacerdote che gli amministri il sacramento dell’Unzione degli infermi.
Esso gli conferisce una grazia speciale per associare le proprie sofferenze a quelle della Passione di Cristo, per sopportare con serenità e pazienza i dolori della malattia, per fortificare l’anima davanti alla prospettiva della morte, per assolverlo dai suoi peccati se non ha avuto occasione di confessarsi e, persino in certe occasioni, per procurare un sollievo e ripresa dalla malattia.
Nel caso lo stesso malato non sia in condizione di chiedere il sacramento della Santa Unzione, è dovere di carità di coloro che se ne prendono cura chiamare un sacerdote perché glielo amministri, in modo che lo riceva ancora nell’uso delle sue facoltà.
Vivere bene davanti alla morte
La morte non è per il cristiano qualcosa di tragico o irreparabile. Essa è la soglia che divide la prima tappa della nostra vita, quella terrena, dalla seconda, l’eterna, che è migliore e definitiva. Perciò non è vietato desiderare la morte, come san Paolo (Fil. 1,21-25), a condizione però di sottometterci alla volontà di Dio se Egli vuole il prolungamento della nostra vita terrena. Cioè, non facendo niente che danneggi la nostra salute né ci provochi la morte.
Nella Basilica romana di Santa Sabina vi è, in uno dei suoi muri laterali, il sepolcro di un medievale che reca la seguente iscrizione mortuaria: «Ut mortuus viveret, vixit ut moriturus» (Per continuare a vivere dopo la morte, visse come uno che doveva morire). Sintesi mirabile di saggezza cristiana!
La giovane beata Laura Vicuña offrì la sua vita per la conversione della madre e glielo rivelò già agonizzante: «Mamma, muoio contenta!». Il ragazzino dodicenne messicano, martirizzato nella persecuzione dei cattolici a opera di Plutarco Elias Calles, scrive tranquillamente alla madre a mo’ di congedo: «Mamma, mai è stato così facile andare in Paradiso. Mi fucilano domani». Infatti, fu torturato e ucciso il giorno dopo e oggi è iscritto nel glorioso elenco dei beati martiri.
L’onore dovuto al corpo
Alla morte segue la sepoltura non della persona ma dei suoi resti mortali. In quasi tutte le culture c’è stato il rispetto per le salme dei defunti. Nella prospettiva della fede cristiana questo rispetto ha fondamenta molto solide.
La prima è che il corpo e la sua materialità sono un’opera mirabile di Dio. Poi c’è il fatto che il corpo di un cristiano che vive in grazia è un membro del corpo di Cristo e un tempio dello Spirito Santo (1 Cor. 6,15,19) e ha ricevuto, come segno di questo fatto, le unzioni liturgiche. Ancora, perché il corpo è lo strumento mediante il quale è stata vissuta l’esistenza cristiana. Infine, perché il corpo è destinato alla gloriosa resurrezione di coloro che hanno vissuto in conformità con il Vangelo.
La tradizione cristiana ha preferito l’inumazione dei cadaveri, cioè la sua collocazione nella terra (humus), «perché sei polvere e in polvere ritornerai» (Gn. 3,19). Ultimamente è divenuta più frequente la cremazione. Ragioni diverse possono giustificare questa procedura, benché non sia il modo tradizionale di dare sepoltura ai resti mortali dei fedeli.
Con la morte finisce il tempo di fare scelte positive o negative nei riguardi della volontà di Dio. Dopodiché, l’anima umana rimane fissata per sempre nel suo atteggiamento di accoglienza o rifiuto della grazia di Dio. In quel momento si verifica il giudizio particolare di ognuno di noi.
Questo testo di Jorge card. Medina Estevez è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. È possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it