L’Occidente dopo Kabul

In un articolo sul Corriere della Sera del 28 agosto 2021, Ernesto Galli della Loggia pone la seguente domanda: “Sono ancora in grado le nostre società di fare la guerra? Di sostenere psicologicamente l’urto terribile di una dimensione per così dire volontaria della morte? Siamo ancora noi capaci di accettare l’eventualità di dare o ricevere consapevolmente la morte, così come da sempre vuol dire “fare la guerra”.
A questa domanda cruciale il politologo italiano risponde esaminando il peso militare che nelle operazioni contro i talebani hanno assunto i cosiddetti contractor. Utilizzati dagli Stati Uniti in tutti i teatri di operazione (dai Balcani all’Iraq) questi combattenti civili sono assunti da ditte private le quali hanno stipulato appositi contratti con il Pentagono. Essi sono l’espressione di un dato storico di fondo: la fine in Occidente dell’esercito nazionale, sostituito da un vero e proprio outsourcing della guerra affidata ad un esercito di specialisti che in Afghanistan hanno perso la vita in numero maggiore dei soldati della US Army. Ma, osserva Galli della Loggia, “con un’armata di specialisti e di mercenari si possono fare al massimo operazioni di polizia; e anche quelle si finisce inevitabilmente per perderle nella maniera più rovinosa se ci si ostina a farle passare per qualcos’altro”.
Un popolo combatte se è disposto a sacrificare la propria vita per gli ideali in cui crede. Oggi, però, il bene comune sembra coincidere con quello della massima “sicurezza”. L’Occidente pretende di combattere una guerra a morti zero, e se ciò non accade la reazione non è controllata, ma ansiosa ed emotiva.
L’immagine del presidente degli Stati Uniti di America Joe Biden che piange in diretta tv, osserva Alessandro Sallusti sul quotidiano Libero del 28 agosto, non è un segnale incoraggiante per il mondo occidentale. Il comandante in capo della prima potenza mondiale non può farsi prendere dall’emozione come un qualsiasi anziano pensionato, ma deve essere in grado di mascherare la propria fragilità. Il dato psicologico di questa scena, osserva sullo stesso quotidiano Renato Farina, “non solo corrisponde in pieno alla durezza della catastrofe che stiamo vivendo, ma è pure una profezia per il futuro”. Un futuro di lacrime appunto per l’Occidente.
Quando Winston Churchill disse di non avere altro da offrire che “sangue, fatica, lacrime e sudore ”, aggiunse: “Chiedete qual’è la nostra politica? Rispondo che è condurre la guerra per mare, per terra e per cielo, con tutta la forza e lo spirito battagliero che Dio può infonderci”.
Chi è in grado oggi di affrontare i nemici con tanta determinazione? L’Occidente non ha ancora compreso qual è il nemico esterno che ha di fronte. Come osserva Maurizio Molinari su “La Repubblica” del 29 agosto, la faida jihadista per il controllo di Kabul fra i talebani di Abdul Ghani Baradar e l’Isis del Khorasan contrappone due modelli rivali per l’Afghanistan: “I talebani con la riedizione del loro Emirato islamico puntano a diventare l’esempio più rigido di Stato fondamentalista”. L’Isis del Khorasan “persegue invece la creazione di un “Califfato” nei territori di Afghanistan e di ampie regioni limitrofe in Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghistan e Tagikistan, fino a toccare i confini con la Cina di Xi Jinping”. Entrambi i progetti “nascono dal pensiero jihadista di Abdullah Azzam, il fondamentalista palestinese assassinato a Peshawar nel 1999 e considerato il mentore di Osama Bin Laden, secondo il quale la ‘guerra agli infedeli’ in Afghanistan avrebbe segnato ‘l’inizio della Jihad globale’ portando alla sottomissione del mondo intero all’Islam. Ma puntano a realizzarlo in maniera opposta: edificando un Emirato nazionale o creando un Califfato regionale centro-asiatico”.
Collaborare con i “moderati” talebani, per isolare l’Isis, significherebbe ignorare chi si ha di fronte. L’islamismo contemporaneo, come osservano tutti i suoi studiosi ha il suo nucleo nella dottrina del jihad. Essa, si si esprime nella nuova guerra di religione mondiale che, sotto le vesti dei talebani o quelle dell’Isis, ha nell’Islam radicale il suo partito combattente.
Di fronte a questo nemico ideologico la guerra è inevitabile, ma deve essere combattuta senza lacrime, a ciglia asciutte, con la determinazione a vincere. Ma quali sono gli ideali e i valori a cui si richiama la classe dirigente occidentale? E’ in grado essa di discernere una “guerra giusta”, e di condurla con credibilità fino in fondo? Le guerre possono essere occasioni di grandi rinascite o di grandi catastrofi, a seconda degli uomini e delle contingenze storiche. Quale affidamento dare a chi non sa neppure attribuire agli eventi bellici il loro nome?
Mentre la seconda guerra mondiale volgeva al termine, Pio XII indicava le linee maestre della ricostruzione nel ritorno delle società e delle nazioni all’ordine stabilito da Dio, cioè “a un vero cristianesimo nello Stato e fra gli Stati” (Allocuzione al Concistoro, 24 dicembre 1945). E all’indomani del conflitto il Papa, individuava le cause profonde della guerra nell’abbandono e nel disprezzo della legge di Dio, che costituisce il solo fondamento della pace interna degli Stati e della pace internazionale (Radiomessaggio al mondo del 24 dicembre 1941). Oggi non solo nessun uomo politico parla questo linguaggio, ma i vertici stessi della Chiesa lo hanno abbandonato e invocano una falsa pace che porta alla disfatta.
In guerra non prevale la forza militare, ma quella morale. Se l’attentato dell’11 settembre 2001 fu una dichiarazione di guerra dell’Islam alla nostra civiltà occidentale, la vergognosa fuga da Kabul sancisce, dopo vent’anni, la sconfitta militare, ma soprattutto morale dell’Occidente. Solo uno straordinario aiuto divino può capovolgere le sorti di un conflitto planetario, il cui esito è altrimenti segnato. Per questo è l’ora della lotta e dell’immensa fiducia.