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L’epoca delle passioni tristi e la sola parola che conta

La trave e la pagliuzza02 Maggio 2020
Testo dell'audio

In questi giorni di quarantena chi di noi è genitore ha modo di confrontarsi un po’ di più con i propri figli. Magari non è confronto approfondito, però si colgono parole ed espressioni, si vedono segnali.

Da quel che capisco, i nostri ragazzi hanno un problema con il futuro. Il che non è certo una novità, perché tutti i giovani hanno sempre avuto un problema con il futuro. Ma oggi sembra che il problema si sia fatto molto grande.

Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista di origini argentine trapiantato in Francia, ha scritto con lo psichiatra Gérard Schmit L’epoca delle passioni tristi, libro nel quale, preoccupati dall’aumento continuo delle richieste di supporto da parte di giovani e giovanissimi, i due autori si interrogano sul diffondersi delle patologie psichiatriche fra le nuove generazioni e sostengono che la nostra epoca è dominata, appunto, da quelle che Spinoza definiva le ‟passioni tristi”: su tutto domina un senso di incertezza e impotenza, un sentimento di precarietà di fronte al quale, al di là dei farmaci, non sembrano esserci risposte adeguate.

Il giovane che è “affetto”, se così possiamo dire, da passione triste vede nel futuro non una promessa e un’opportunità, ma un rischio e una minaccia. Così lo spirito di iniziativa si fa evanescente e al suo posto subentra la demotivazione cronica.

Per i due specialisti autori del libro tutto ciò ha avuto inizio con la fine dell’ottimismo filosofico e teologico secondo cui il male era concentrato nel passato, mentre il presente è tempo di liberazione e il futuro è salvezza. A lungo, sostengono gli autori, l’Occidente ha vissuto di ottimismo: prima con la tradizione giudaico-cristiana, poi con la scienza, l’utopia e la rivoluzione. Ma ora che Dio è morto e che ogni forma di ottimismo è crollata, non ci resta che la paura. Certo, abbiamo la tecnoscienza, ma le certezze relative che la scienza ci offre non rispondono al bisogno di senso e non ci tranquillizzano circa il futuro. Anzi, semmai ci inquietano.

La paura del futuro produce l’appiattimento sul presente, per cui il giovane smette di progettare e si limita a consumare. Mancando il futuro, gli educatori, genitori e insegnanti, si ritrovano spogliati dell’autorità di indicare una strada. Tra il giovane e l’adulto si instaura quindi un rapporto di tipo contrattualistico, all’interno del quale l’adulto, anziché indicare una via e proporre un progetto, si trova a dover giustificare le sue scelte e quasi a chiedere scusa.

Viviamo in un’epoca di caduta delle maschere. Quelle delle ideologie sono cadute da un pezzo, ma ora cadono anche tutte le altre. Anche medicina e tecnoscienze, nonostante i progressi, stanno mostrando i loro limiti, e ora questa pandemia avrà certamente ripercussioni ulteriori.

Le sollecitazioni poste dagli autori del libro sulle passioni tristi sono interessanti. L’utilitarismo sta schiacciando i giovani. Efficienza e funzionalità vengono prima di tutto. La dimensione del dono e della gratuità è offuscata, se non scomparsa del tutto. La parola sacrificio non è più ammessa: l’unica dimensione ammessa è quella del calcolo costi-benefici. Ma la vita supera di gran lunga la sfera economica e produttiva.

Se ci pensiamo, queste considerazioni esprimono in modo laico contenuti e preoccupazioni della fede cristiana.

Io appartengo a una generazione che, negli anni dell’adolescenza e della gioventù, visse una profonda crisi a causa del tramonto delle illusioni innescate dal Sessantotto e dal loro tramutarsi in violenza. A fronte di quel trauma, che anche in quel caso proiettava ombre nere sul nostro futuro, alcuni di noi, andando alla ricerca di un significato per l’esistenza, incontrarono la parola e l’esempio di un papa che non faceva assolutamente niente per lusingare i giovani, eppure in molti casi li catturava. Non prometteva il paradiso in terra, non profetizzava impossibili palingenesi, ma proponeva di diventare amici di Gesù prendendo la propria croce.

Nella veglia con i giovani a Tor Vergata, nel 2000, quel papa, Giovanni Paolo II, disse: “Carissimi amici, anche oggi credere in Gesù, seguire Gesù sulle orme di Pietro, di Tommaso, dei primi apostoli e testimoni, comporta una presa di posizione per Lui e non di rado quasi un nuovo martirio: il martirio di chi, oggi come ieri, è chiamato ad andare controcorrente per seguire il Maestro divino”.

Quel papa parlava di martirio, eppure i giovani lo ascoltavano e, spesso, lo seguivano.

La passione che suscitava non era triste. Perché era una parola d’amore. E forse, chissà, alla fine il segreto sta proprio in questa parola: amore.

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