< Torna alla categoria

L’atto umano in quanto morale

Teologia Morale04 Aprile 2023
Testo dell'audio

Bentrovati al nostro appuntamento settimanale! Dopo aver visto gli ostacoli che agiscono sull’esercizio della volontà, oggi iniziamo ad analizzare l’atto umano in quanto morale. Gli atti umani non si rivelano alla nostra coscienza soltanto come volontari e liberi, ma anche come morali, caratterizzati cioè da una proprietà che li rende buoni o cattivi e che specifica gli atti eliciti della volontà in modo diretto e indirettamente gli atti imperati.

Questa proprietà degli atti umani è oggettiva (o materiale), se qualifica in se stesso l’atto, il quale sarà oggettivamente buono o cattivo secondo la sua conformità o non conformità alla legge morale; è soggettiva (o formale), se qualifica l’atto non più in se stesso, ma in quanto procede dalla volontà libera, e fa l’atto soggettivamente buono o cattivo secondo la rettitudine o il difetto di rettitudine della volontà.

 

La moralità oggettiva

 

Nessuno ha mai negato la distinzione tra bene e male, ma più volte è stato contestato che vi sia qualche azione che in se stessa (o intrinsecamente) sia buona o cattiva. Il bene e il male non sarebbero che dei punti di vista variabili e contingenti, dipendenti dall’evoluzione dei costumi e delle iniziative della legge positiva.

Sappiamo che cosa pensare di questa opinione, avendo già dimostrato la realtà innegabile di un diritto naturale, e cioè di una norma in funzione della quale gli atti umani sono intrinsecamente buoni o cattivi, secondo che orientino o no verso il fine ultimo della natura. Evidentemente noi siamo in un ordine essenzialmente oggettivo, in virtù del quale possiamo dire, con San TOMMASO, che si può parlare di bene e di male nel campo dell’ agire, proprio nello stesso senso con cui si parla di bene e di male nelle cose. Certe cose posseggono la pienezza dell’essere ad esse conveniente e sono dette buone; altre soffrono qualche mancanza o difetto e sono dette cattive in proporzione delle loro deficienze. 

 

Un esempio che può apparire banale per chiarire meglio questo concetto: quand’è che diciamo che un frutto è cattivo e guasto? Evidentemente quando in esso manca qualcosa. Ad esempio una minore quantità di polpa, o un grado zuccherino inferiore al dovuto, oppure un numero di semi insufficiente per coltivare la pianta di quel determinato frutto. Il frutto in se stesso è fatto per avere il giusto quantitativo di polpa, grado zuccherino e numero di semi, ma la mancanza più o meno ingente di questi elementi fa venir meno la bontà del frutto in proporzione a tali mancanze.

 

Così nell’ordine dell’azione, un atto che non ha tutto l’essere che dovrebbe possedere è cattivo in  proporzione di questa deficienza di essere. È ancora da precisarsi, però, in che cosa consista per un atto umano il fatto di possedere o no l’essere che deve avere. Questo è il problema della natura e delle sorgenti della moralità oggettiva.

 

NATURA DELLA MORALITÀ OGGETTIVA

 

Chiederci in che cosa consista la natura oggettiva del bene e del male significa ricercare quale sia la norma della moralità oggettiva. Abbiamo detto poco fa che questa norma, in generale, consiste, per un atto umano, nel possesso o no dell’essere che gli è dovuto: è chiaro che l’essere di cui parliamo non è una cosa, ma una qualità, e più precisamente una relazione, poiché appartiene all’essenza di ogni atto il tendere, direttamente o indirettamente, ad un fine. Il bene e il male, pertanto, si definiranno oggettivamente per la convenienza o la non convenienza di quest’atto col fine ultimo dell’uomo. E poiché questa convenienza o sconvenienza deve essere conosciuta dalla ragione umana, essendo l’uomo un essere razionale e libero, la norma immediata del bene e del male morale sta nell’accordo o nel disaccordo degli atti morali con la ragione umana.

 

IL BENE E IL MALE INTRINSECO

 

  1. a) Atto e oggetto. In materia di moralità oggettiva, atti e oggetti (o fini) sono una sola e medesima cosa, essendo l’atto – per definizione – specificato oggettivamente dal suo fine. Ciò deriva con evidenza da quanto or ora s’è detto: la moralità oggettiva dell’atto risiede fondamentalmente nella sua relazione col fine, e, per conseguenza, con l’oggetto, essendo il fine l’oggetto verso il quale si tende. Ammettere l’esistenza di una moralità oggettiva significa ammettere per ciò stesso che vi sono oggetti in se stessi buoni o cattivi.

Bisogna approfondire ancora di più la verità di questa affermazione. Ontologicamente ogni essere è buono nella misura stessa in cui è essere: da questo punto di vista, un «essere intrinsecamente cattivo» è una contraddizione in termini e una nozione impensabile. Un oggetto non potrà dunque essere qualificato buono o cattivo che in relazione all’appetito, cioè, secondo che soddisfi o contrari un desiderio o un bisogno. A questo titolo, ogni oggetto di desiderio è buono, in quanto capace di soddisfare il desiderio stesso. Dal punto di vista morale, che è specificato dal fine ultimo, un oggetto si dirà in sé buono o cattivo se è proporzionato o no al conseguimento del fine ultimo dell’uomo. L’oggetto dovrà perciò essere giudicato non nella materialità ontologica, ma nel suo valore morale, costituito dalla conformità o difformità dell’atto (o dell’oggetto che lo specifica) col fine ultimo dell’uomo.

 

  1. b) Il bene onesto. Il bene oggettivamente onesto non si determinerà immediatamente in rapporto al fine ultimo, perché la moralità dell’atto non implica da parte della volontà un riferimento formale al fine ultimo. Sappiamo che il criterio del rapporto tra l’atto umano e il fine ultimo consiste nella convenienza o non convenienza dell’atto con la natura razionale dell’uomo, considerata nelle sue tendenze e nelle sue attitudini, così come nelle relazioni generali e personali che uniscono l’uomo a Dio e alle altre creature. Sarà dunque questa convenienza, o proporzione, che definirà propriamente e immediatamente il bene onesto nella sua essenza oggettiva.

Per lo stesso motivo, la moralità oggettiva risulterà dagli oggetti prossimi, o fini immediati dell’azione, secondo che fini o oggetti prossimi siano o no dei beni onesti, cioè in se stessi desiderabili e convenienti all’uomo.

 

LA RAGION PRATICA

 

  1. a) Il dettame della retta ragione. Dire che la moralità di un atto o di un oggetto (o fine) si determina in ragione della sua proporzione a ciò che conviene alla natura razionale dell’uomo, e per conseguenza alla legge naturale, significa dire che essa è l’oggetto di un giudizio e che alla ragione spetta giudicare. Sarà dunque la ragione, in definitiva, la regola prossima della moralità oggettiva, in quanto atta a cogliere la qualità morale di ciascun atto.

Questo giudizio è definito un dettame della ragione, cioè una decisione (giudizio pratico), la quale afferma ciò che bisogna fare o non fare in funzione di ciò che la ragione conosce come buono o cattivo (cioè conveniente o no alla natura, conforme o no alla legge naturale); esso è un dettame della retta ragione, quando il giudizio pratico della ragione è effettivamente conforme alle esigenze della moralità oggettiva (o della legge naturale).

Materialmente, il dettame della ragione è un sillogismo (che rimane spesso implicito), la cui premessa maggiore enuncia una legge generale (precetto della legge naturale o di una legge positiva che precisa o determina il diritto naturale); la minore enuncia la qualità dell’atto in questione, e la conclusione definisce che quest’atto dev’essere compiuto perché buono o evitato in quanto cattivo. Così, per esempio, come nel seguente sillogismo:

«Bisogna rendere a ciascuno quello che gli è dovuto; questo libro appartiene a Pietro che me lo ha prestato; dunque, io devo restituirglielo». La conclusione esprime l’ultimo giudizio pratico morale, che comanda o proibisce l’azione in funzione del bene o del male e costituisce la coscienza morale, la quale è propriamente un atto e non una facoltà.

 

Nel prossimo podcast cominceremo a studiare le fonti della moralità degli atti umani!

Da Facebook