Latino

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.
La lingua latina nel suo carattere sacro, immutabile, tradizionale ed universale è perfettamente adatta al santo Sacrificio della Messa e alla dottrina che esprime, come pure alla Chiesa cattolica e, più in generale, alla cattolicità stessa[1].
Essendo immutabile, tradizionale ed universale, essa costituisce un principio di unità per tutti i cattolici di Rito romano, non solo di tutte le nazioni ma anche di tutti i tempi: un principio sia di unità visibile che di unità nella Fede.
Il latino fu abolito da Martin Lutero per la ragione espressa come segue nel XXIV dei “Trentanove Articoli” in diretta sfida al Concilio di Trento[2]: «E’ una cosa semplicemente ripugnante alla Parola di Dio e al costume della Chiesa primitiva recitare la pubblica preghiera nella Chiesa o somministrare i Sacramenti in una lingua non compresa dal popolo»[3]. Dom Guéranger afferma che l’«Odio verso la lingua latina è innato nel cuore di tutti i nemici di Roma […], è il colpo maestro dei protestanti l’aver dichiarato guerra alla lingua sacra» (WHH p. 91).
E’ chiaro, inoltre, che ciò che viene perso nella Messa, accanto alla lingua latina, è non solo il senso del sacro, ma anche il senso di immutabilità, di tradizione e di universalità.
Inoltre, con la traduzione in innumerevoli lingue, la Messa perde la sua uniformità e chiarezza catechetiche[4]; e una volta che essa non è più il veicolo per il canto in latino, creato dai più grandi compositori che il mondo abbia mai conosciuto, perde il potere di toccare profondamente il cuore umano nella contemplazione dei misteri di salvezza[5].
In poche parole, con la perdita del latino la Messa perde gran parte della sua cattolicità.
Il documento Tres Abhinc Annos (“La Seconda Istruzione” nel 1967) dava il permesso di dire l’intera Messa, incluso il canone, ad alta voce e nella lingua nazionale. Ciò era contrario alle intenzioni dei membri del Concilio Vaticano II, come risulta chiaro dall’articolo 36 della Costituzione liturgica, che né intendeva, né prevedeva, un canone in volgare[6], e permetteva il volgare:
I) soltanto come una concessione;
II) solo in certe parti della Messa; e
III) non in quelle che concernevano il sacerdote da solo (MD p. 368).
L’abolizione del latino fu il lavoro degli “esperti liturgici”. Michael Davies commenta (p. 368): «Il cardinale Heenan testimoniò che Papa Giovanni stesso non sospettava ciò che veniva progettato» da loro: «Non ci può essere alcun dubbio che i Padri furono deliberatamente fuorviati».
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[1] Papa Pio XI nell’Officiorum Omnium, 1922, scrive: «[…] la Chiesa, proprio perché abbraccia tutte le nazioni ed è destinata a durare sino alla fine dei tempi….per sua stessa natura richiede una lingua che sia universale, immutabile e non volgare» (MD p. 377).
[2] Si quis dixerit, Ecclesiae Romanae ritum, quo submissa voce pars canonis et verba consecrationis proferuntur, damnandum esse; aut lingua tantum vulgari Missam celebrari debere…Anathema sit (can.9 Sess.22).
[3] Questo atteggiamento, che è riaffiorato nel dibattito liturgico contemporaneo, costituisce sia la più diffusa che la più superficiale argomentazione contro la liturgia in latino. Rifiutare qualcosa semplicemente perché non si capisce è un atteggiamento indegno di un uomo. Che le argomentazioni a favore del latino enumerate qui bastino a giustificare lo sforzo minimo richiesto per consultare le traduzioni vernacolari durante i sacri Misteri. Osserviamo il ruolo della pigrizia nell’atteggiamento dei Modernisti.
[4] Papa Pio XII scrive, in Mediator Dei che «l’uso del latino prevalente nella gran parte della Chiesa permette […] una salvaguardia efficace contro la corruzione della vera dottrina» (MD p. 377).
[5] Papa Paolo VI in Sacrificium Laudis (1966) chiama la lingua latina «il più ricco tesoro di devozione» (MD p. 378).
[6] Ancora nel 1965 il Consilium insisteva che il permesso a ciò non sarebbe mai concesso.