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La rivoluzione infinita

Storia20 Gennaio 2018
Testo dell'audio

Temporeggiavano. Troppo. I leader bolscevichi volevano attendere il secondo congresso dei Soviet, ormai imminente, un pò per lealtà verso gli altri partiti socialisti rappresentati nel Governo provvisorio e nei Soviet (“consigli di operai”), un po’ per timore di un possibile fallimento. Si vagheggiava un allargamento del governo, ipotesi bocciata da Trotzkij, poiché questo avrebbe consentito ai partiti estranei alla sommossa «di strappare il potere» a coloro che li avevano rovesciati, rendendo di fatto «inutile fare la rivoluzione».

«Bisogna buttarsi, poi si vedrà»

Vladimir Ilic Ulijanov, detto Lenin, dal Comitato Centrale del partito, aveva ottenuto solo – peraltro dopo un estenuante tira e molla – che all’ordine del giorno fosse posta a tema «l’insurrezione», niente di più. Lui, invece, aveva fretta, per evitare che la controrivoluzione avesse il sopravvento: «Rinviare l’insurrezione ora equivarrebbe a farla nascere morta», considerò, concetto che avrebbe ribadito anni dopo, citando Napoleone: in certi frangenti della Storia «bisogna buttarsi, poi si vedrà». E buttarsi, qui, significava puntare ad un governo esclusivamente bolscevico e ricorrere al terrore politico come arma di controllo e di dominio. Dichiarò Bubnov, uno tra i più convinti sostenitori di Lenin: «Quando saremo al potere, dovremo ricorrere al terrore di massa». E lo fecero.

Lenin, definito «il selvaggio acculturato» da Julij Martov, portavoce dei menscevichi nel Partito operaio socialdemocratico russo, e dallo scrittore Boris Pasternak il «genio dell’angustia mentale», aveva alle spalle una storia pesante: suo fratello maggiore, Alessandro, fu condannato a morte ed impiccato nel 1887, perché coinvolto in un attentato contro lo zar Alessandro III.

Lui stesso venne espulso dall’Università di Kazan per aver partecipato ad una rivolta studentesca, ma il suo comportamento modello convinse poi, nel 1891, a riammetterlo all’Università di Pietroburgo. Quattro anni dopo venne arrestato per attività sovversive e dovette scontare 14 mesi di carcere. Nel 1897 fu deportato in Siberia per tre anni: qui, nel 1899, concluse il suo studio Sviluppo del capitalismo.

Il ruolo della massoneria

Sposatosi con Nadezda Krupskaia, al termine della pena lasciò la Russia. A Ginevra iniziò le pubblicazioni del giornale clandestino Iskra (“Scintilla”), che promosse la fusione di tutti i gruppi di sinistra in un unico partito operaio russo.

Secondo quanto riportato da Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico, da lui fondato, nel suo testo Massoni, società a responsabilità illimitata-La scoperta delle Ur-Lodges, proprio nella città elvetica, Lenin avrebbe creato la loggia massonica “conservatrice” «Joseph de Maistre». Altre fonti convergono nel ritenere che a Parigi, nel 1908, egli sia stato iniziato alla loggia massonica «Union de Belleville» ed abbia ottenuto il 31° grado ovvero Grande Ispettore Inquisiteur Commandeur.

Inoltre, sarebbe stato membro del lodge Art et Travail in Svizzera e Francia. Ne parlano esplicitamente Nikolai Svítkov in Massoneria tra i russi in esilio, edito proprio nella capitale francese nel 1932, Oleg Platonov in Corona di spine di Russia: la storia segreta della Massoneria, Viktor Kuznetsov ne Il segreto del Coup Ottobre e Franz Weissin in Der Weg zum Sozialismus.

Assieme a Trotskij, Lenin è stato indicato tra i partecipanti alla conferenza massonica internazionale, svoltasi a Copenaghen nel 1910. Non solo: Alexander Galpern, nel 1916 segretario del Consiglio supremo massonico, ha confermato la presenza di massoni tra i bolscevichi e pare che provenissero da ambienti massonici i sostegni finanziari giunti a Lenin, come riportato da Grigori Aronson in Massoni nella politica russa. Certamente, squadra e compasso rappresenta, in ogni caso, un humus etico e culturale, che ha informato di sé i salotti della rivoluzione.

Lenin capì come non vi fosse bisogno soltanto di uomini e di strutture, ma anche e soprattutto di un’architettura ideologica, specie in questa fase preparatoria della rivoluzione. Per questo compose Che fare? nel 1902. L’anno dopo al congresso del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, svoltosi a Londra, è riuscito ad imporre la sua linea, quella poi divenuta famosa con la «dittatura del proletariato».

La rivoluzione di febbraio

Nel 1917 cominciarono a crearsi le condizioni idonee per uno stravolgimento degli equilibri. L’8 marzo vi fu una rivolta contro lo Zar a Pietrogrado: qui si costituì un Soviet, appoggiato da una parte della guarnigione militare. Esattamente una settimana dopo, il 15 marzo, lo zar Nicola II abdicò. Gli succedette per sei ore soltanto il figlio Alessio, sostituito poi dall’Arciduca Michele, fratello di Nicola II, che a sua volta però lasciò nel giro di una giornata.

Si consumò così la «rivoluzione di febbraio». Perché di febbraio? Perché all’epoca, in Russia, era in uso il calendario giuliano, che anticipava di 13 giorni quello gregoriano: venne abolito da Lenin l’8 febbraio 1918.

Il 17 marzo 1917, si costituì il primo Governo provvisorio di Lvov. Ne fece parte, addirittura con l’incarico di vicepresidente del consiglio e ministro di Giustizia, un giovane e brillante avvocato, Aleksandr Fedorovič Kerensky. Chi fu Kerensky? Nacque a Volsk nel 1881. Entrò giovanissimo in politica, aderendo al partito socialrivoluzionario. Nel 1912 venne eletto alla IV Duma, dove manifestò subito idee radicali, ponendosi a capo dell’esiguo gruppo dei trudoviki, contrari allo Zar e a qualsiasi governo, che fosse ritenuto «borghese».

Il 20 marzo lo Zar e la sua famiglia vennero tratti in arresto «per garantirne l’incolumità personale», come Kerensky ebbe la sfrontatezza di dire. In realtà, furono condotti al confino a Zarskoje Selo: da quel momento iniziò per loro un terribile calvario, che si sarebbe concluso solo il 16 luglio 1918 con il loro massacro, a Ekaterinburg.

Tra il 9 e il 13 aprile, con l’appoggio dello Stato Maggiore tedesco, che gli mise a disposizione un vagone piombato, Lenin lasciò Berna, in Svizzera, e rientrò a Pietroburgo, “ribattezzata” dal 1914 Pietrogrado. In un discorso, divenuto famoso come le «tesi di aprile», proclamò: «Tutto il potere ai Soviet».

Il 6 maggio 1917, questa volta con l’incarico di ministro della Guerra e della Marina nel secondo gabinetto Lvov, Kerensky promosse un’offensiva, che da lui prese il nome: fu un totale fallimento, il che lo rese inviso all’esercito. Cominciò la fase discendente della sua parabola.

A luglio, caduto Lvov, Kerensky venne incaricato di formare il nuovo governo. Subito il giorno 8 di quel mese, accusò Lenin di essere un «agente provocatore tedesco», costringendolo alla fuga: riuscì a nascondersi, per evitare l’arresto.

L’8 settembre Kerensky dovette fronteggiare il colpo di mano reazionario del generale Kornilov: per questo, decise di fornire armi ai Soviet, senza rendersi conto di armare così il suo nemico. Lenin, infatti, aveva assunto direttamente la direzione delle operazioni ed, in rotta di collisione col suo stesso partito, creò le condizioni di uno scontro tra i due poteri forti sorti dalla «rivoluzione di febbraio» dopo il crollo dello zarismo: pose cioè il Governo provvisorio contro i Soviet, affinché questi si prendessero tutto il potere.

E, dopo poco, vi sarebbero riusciti. Il 14 settembre il Governo provvisorio proclamò la repubblica. Passarono solo quattro giorni e vi fu l’ennesimo ribaltone nel Soviet di Pietrogrado. La mozione “massimalista” del partito di Lenin venne approvata. I falchi ebbero il sopravvento.

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