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La Repubblica di Venezia e la bellezza nella cura politica dell’ordine cristiano

Arte e Cultura04 Febbraio 2019
Testo dell'audio

È da sfatare il luogo comune di Venezia, patria del libertinismo e del laicismo, dei quali la città più bella al mondo sarebbe stato il più bel frutto. Vediamo come stavano le cose punto per punto.

Venezia capitale della stampa “libera”?

Circolava di tutto, si dice. Eppure i Savii sopra l’Eresia, gli Inquisitori di Stato, gli Esecutori contro la bestemmia impedivano pubblicazioni contro la religione e la morale. Nelle commedie goldoniane non ci sono personaggi di ecclesiastici o di patrizi veneziani: lo proibiva la Repubblica, per l’onore della Chiesa e dello Stato.

Città eretica?

Venezia ebbe una politica filo-protestante ai primi del ‘600 (al tempo della controversia col Papa, dell’interdetto e di fra’ Paolo Sarpi). La repressione degli eretici formali, mirante anzitutto alla loro abiura, fu però costante in laguna, al fine di evitare che l’eretico diventasse assassino di anime e la sanzione per gli ostinati era l’annegamento nei canali.

Pubblica bestemmia

Se intenzionale e unita ad atti sacrileghi, comportava la morte; diversamente il taglio della lingua o un foro in essa (l’ira, lo scherzo, l’ubriachezza erano attenuanti).

Prostituzione e sodomia

Limitata la prima in case appartate, lontane da chiese (era così anche negli Stati Pontifici); ma repressa duramente, con multe, bando e – in caso di recidiva anche con pene corporali – se invadeva luoghi pubblici o cerimonie religiose o civili, se adescava giovani, se la cortigiana ostentava lussi o teneva in casa domestiche, se si concedeva a non cristiani, offendendo così la religione.

Per il lenocinio c’era la flagellazione e l’esposizione fra le due colonne della piazzetta; ma per chi induceva a prostituirsi c’era la pena capitale, se la vittima era una donna sposata o una religiosa o se portata a un’unione contro natura.

Per la sodomia c’era il rogo (mitigato nel ‘700) e le cronache del ‘500 riportano la messa a morte di una maitresse per aver istigato le altre cortigiane a relazioni sodomitiche con i clienti.

La Repubblica, Stato cattolico, aveva a cuore anche le prostitute: consentiva loro l’accesso in certe chiese, in giorni non festivi e in orari che non dessero scandalo, senza poter stare sui banchi delle donne oneste; interdiceva il meretricio alle infratrentenni; favoriva la loro uscita dal malaffare con istituti assistenziali (come la Casa del soccorso presso la Chiesa di San Nicolò da Tolentino, voluta da dame dell’aristocrazia) in cui si ospitavano le peccatrici pentite, onde rifarsi una vita.

Leggi suntuarie

Colpivano l’immodestia nel vestire e l’ostentazione del lusso – ecco perché tutte le gondole a Venezia sono nere – specie nelle donne, cui si prescriveva lo scialle nero (lo si vede nei dipinti di Canaletto).

La parrucca, introdotta proprio a Venezia nel 1668, veniva tassata ad evitare stravaganze. Anche a Carnevale era vietata la maschera di notte, nei luoghi sacri e nelle case da gioco. Il Gioco fu la vera passione veneziana, che la Signoria ora proibì, ora limitò a specifici luoghi.

Adulterio e bigamia

Il rapporto fra due persone non sposate non era punito, ma la donna che tradisse il marito rischiava la pena capitale, commutata spesso nella prigione, nel bando, nella flagellazione o in una multa; il delitto d’onore del marito offeso che cogliesse gli adulteri in flagranza non era punibile.

Il marito di una donna che si desse a terzi doveva lasciarla. Il bigamo rischiava forti multe a pro del coniuge in vita e dell’altra persona ingannata, non escluse pene corporali o l’imbarco forzato sulle galere.

A seconda dei reati, la Repubblica conosceva poi: i lavori forzati, la radiazione dai pubblici uffici, le punizioni infamanti (come l’innalzamento di una colonna d’infamia o la gabbia pendente dal campanile di San Marco per i religiosi colpevoli di omicidio, sodomia, sacrilegi o la berlina, dove il reo era esposto agli sberleffi, con mitria in capo dipinta con figure di diavoli); l’abbattimento della casa del reo; i tratti di corda, sia pure per breve tempo e presenti due medici, in sede d’indagini su delitti assai gravi; la pena di morte, inflitta per molti crimini ed eseguita a mezzo decapitazione o impiccagione (la seconda più infamante) o anche per strangolamento, fucilazione, annegamento, rogo.

Esemplare il mazzolamento (colpi di mazza o di martello in testa) irrogato nel 1513 a giovani patrizi rei di aggressioni, violenze e furti a danno del popolo: al suono della campana, le guardie schierate, affiancati dalla Confraternita di San Fantin che assisteva i condannati a morte, apparvero al popolo in camicia di tela nera, cuffia in testa, piedi scalzi, baciando i parenti e chiedendo perdono a tutti.

Più tremenda la pena capitale alterata, per crimini efferati, con pene corporali suppletive e corteo acqueo per la città fino al luogo dell’esecuzione. Al gobbo di Rialto e in altri luoghi, il banditore proclamava i misfatti del reo.

Zingari ed ebrei

Numerosi bandi scacciarono i primi entro tre giorni, per le molestie arrecate; prescrivono l’usuale segno di riconoscimento giallo nel vestire ai secondi.

Reati contro lo Stato

Per il peculato (intacco de cassa) c’era la restituzione del maltolto, maggiorato di un quarto o più; l’estromissione dalle cariche pubbliche e, dal 1359, ogni prima domenica di Quaresima, il proprio nome gridato a infamia davanti al corpo nobiliare nella Sala del Maggior Consiglio. Se non nobile e l’importo sottratto più elevato, c’era l’impiccagione.

Molte di queste pene e misure potranno apparire ai nostri occhi fortemente gravi e anche crudeli e intollerabili, e alcune di esse veramente erano esagerate. Ma garantirono alla Repubblica sopravvivenza, ordine e benessere per secoli.

 

Questo testo di Nicola Cavedini è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. È possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it

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