La possibilità etico-psicologica del peccato

Cari ascoltatori bentrovati, oggi parleremo di come il peccato si sviluppa nell’anima umana.
Il peccato è possibile in un essere personale, dotato di volontà, che non abbia in se stesso la norma della moralità, quindi nella creatura ragionevole.
Dio non può peccare; anzitutto perché nell’essere assolutamente perfetto è escluso ogni difetto; inoltre perché la sua bontà non è determinata da una norma morale che stia al di sopra di lui, ma dalla sua propria essenza. Fra le creature sono capaci di peccato gli angeli e gli uomini; in forza della loro spiritualità e libertà questi possono riconoscere e realizzare il concetto di fine morale. Come semplici creature essi hanno in questo concetto di fine morale un filo conduttore superiore alla loro essenza e volontà, da cui possono deviare. Il peccato degli angeli, essendo essi solo creature spirituali, è una prova che la possibilità del male nell’uomo non riguarda soltanto la tensione fra spirito e sensibilità, e che la sensibilità non deve essere considerata nell’uomo come il “male radicale”. L’impossibilità del peccato nei beati del cielo si spiega perché essi hanno raggiunto attraverso la visione soprannaturale di Dio la più stretta unione con la norma suprema e il fine della moralità. D’altro canto, le creature inferiori (pietre, piante, animali), non essendo dotati di personalità spirituale, in quanto tali non possono peccare. Anche gli enti sociali non possono peccare, perché non esiste una colpa collettiva. Possono peccare solo i membri-persone di tali enti, quindi genitori e figli, governatori e cittadini, imprenditori e lavoratori.
La causa e l’origine reale del male sta nella libera volontà della creatura
La libertà data da Dio, in quanto tale, è un privilegio. Il peccato è un abuso di questo privilegio, libera scelta di un bene finito e abbandono del sommo bene morale.
Una certa difficoltà nella spiegazione del male deriva dalla naturale determinazione della volontà al bene e dalla sua dipendenza dall’intelletto che la illumina. Come può la volontà, ci si domanda, desiderare un atto o un oggetto che la ragione e la coscienza dichiarano assolutamente cattivo, riprovevole? Secondo S. Tommaso, che qui è d’accordo con Aristotele e S. Agostino, la volontà anche nel peccato per sé si rivolge solo al bene (fisico), al piacere, all’utile; solo indirettamente essa vuole ciò che è immorale. In realtà la volontà approvando il male contraddice la verità e se stessa. È un errore pratico personalmente colpevole, un auto-accecamento o auto-inganno. Il passaggio dalla buona volontà naturale a quella cattiva avviene così: il peccatore allontana il suo pensiero dalla norma della moralità – tale difetto del pensiero non è in sé ancora peccato – e sceglie l’oggetto proibito che presenta l’apparenza di bene. In tal modo un comportamento senza ragione e legge della volontà precede l’atto della volontà contro la ragione e la legge. L’uomo cerca le tenebre, chiude gli occhi alla luce della verità, per avere la possibilità e il coraggio di peccare concretamente ed errare.
Questa difficoltà si può risolvere più facilmente quando si considera la persona che si comporta volontariamente. Essa riconosce il bene e il male nella coscienza. Possiede la libertà di scelta (in questo caso come libertà di compiere il male). Se questa si decide per il male lo fa perché le appare come un valore positivo. Se compie ciò contro l’ordine dei valori e delle leggi stabilite da Dio e si ribella come creatura contro il suo assoluto Signore e Sovrano, ciò costituisce il nucleo essenziale del peccato.
L’intelligenza sa che l’azione che sta per porre è contraria all’ordine, tuttavia la volontà fa distogliere l’intelligenza dalla considerazione di tale violazione e dalle sue conseguenze. Noi ci inganniamo perché vogliamo ingannarci, facendo tacere la voce della coscienza che giudica il disordine oggettivo che stiamo per porre. Se ci si pensa questa è esattamente la descrizione del processo che ha portato i nostri progenitori, Adamo ed Eva, a cadere nel peccato. Leggiamo insieme il passo della Genesi che descrive la caduta:
Ma il serpente era il più astuto fra tutti gli animali che il Signore Dio aveva creati sulla terra. Il quale disse alla donna: «Per qual motivo Iddio v’ha comandato di non gustare di qualsivoglia albero del paradiso?». Cui la donna rispose: «Del frutto degli alberi che sono nel paradiso, ne mangiamo; ma del frutto dell’albero che è in mezzo al paradiso, Iddio ci ha comandato di non mangiarne e di non toccarlo, che non abbiamo a morirne». Ma il serpente disse alla donna: «No davvero, che non morirete. Dio però sa che, in qualunque giorno ne mangerete, vi s’apriranno gli occhi, e sarete come dèi, sapendo il bene ed il male». Vide dunque la donna che l’albero era buono a mangiarsi, bello agli occhi, e dilettoso all’aspetto; prese del suo frutto, ne mangiò, e ne dette al marito che ne mangiò. E s’aprirono gli occhi ad ambedue. Ed avendo conosciuto d’esser nudi, intrecciarono delle foglie di fico, e se ne fecero delle cinture.
Ed avendo udito la voce del Signore Dio che passeggiava nel paradiso all’aura vespertina, si nascosero, Adamo e la moglie sua, dalla faccia del Signore Dio in mezzo agli alberi del paradiso. Il Signore Dio chiamò Adamo, e gli disse: «Dove sei?». Il quale rispose: «Ho udito la tua voce nel paradiso; ho avuto paura, essendo nudo, e mi son nascosto». A cui disse: «E chi t’ha fatto conoscere d’esser nudo, se non che hai mangiato dell’albero del quale t’avevo comandato di non mangiare?». Rispose Adamo: «La donna che mi desti a compagna, m’ha dato di quel frutto, e ne ho mangiato». Disse il Signore Dio alla donna: «Perché hai fatto ciò?». La quale rispose: «Il serpente m’ha ingannata, ed ho mangiato».
L’affermazione con cui Eva cerca di giustificarsi di fronte a Dio è questa: “il serpente mi ha ingannata”. Ma sta mentendo, in quanto il serpente non l’ha ingannata. Quest’ultimo le aveva solo proposto una suggestione di un beneficio egoistico al prezzo della violazione dell’ordine divino, chiaramente dicendo una menzogna, senza dubbio. Ma è la donna che ha fatto tacere la voce dell’intelligenza che le indicava il vero, auto-ingannandosi. Si potrebbe parlare di inganno solo se lei fosse stata in buona fede: ad esempio, qualcuno potrebbe ingannarmi dicendomi che mi sta offrendo un bicchiere d’acqua, quando in realtà c’è del veleno, ed io berrei convinto, in buona fede, che vi sia dell’acqua. Il risultato del mio atto sarebbe la mia morte, ma non avrei la colpa dell’atto suicidario. Se il serpente davvero avesse ingannato Eva, facendole commettere un disordine puramente materiale, ma senza adesione della volontà al disordine conosciuto come tale, non vi sarebbe stata colpa alcuna. Dunque, se si parla di peccato delle origini è perché Eva, partendo dalla suggestione del serpente, si è auto-ingannata. Peraltro, la risposta che sia Adamo che Eva danno a Dio, facendo praticamente una specie di “scarica barile” ante-litteram, ci fa capire come essi sono ancora legati al peccato che hanno commesso, non sono pentiti. Dunque, il demonio ci tenta dicendo falsità, ma propriamente parlando non ci inganna, perché altrimenti non peccheremmo davvero, in quanto mancherebbe l’avvertenza, come avremo modo di vedere in seguito.
Ci diamo appuntamento al prossimo podcast dover parleremo dei tipi di peccato e dei suoi effetti nell’uomo.