La moralità soggettiva

Finora abbiamo parlato di moralità oggettiva, ora cominciamo a parlare di moralità soggettiva. Quest’ultima specifica l’atto umano, proprio in quanto procede dalla coscienza morale; la quale, come regola immediata ed universale della condotta, determina, per ciascuno in particolare, la qualità morale dei suoi atti. Lo studio della moralità soggettiva è dunque propriamente quello della coscienza morale.
NATURA DELLA COSCIENZA MORALE
IL GIUDIZIO PRATICO – La coscienza morale non è una facoltà, ma un atto, e precisamente un giudizio che pronunciamo sulla moralità dei nostri atti e per il quale decidiamo, in ultima istanza, ciò che bisogna fare o non fare (ultimo giudizio pratico).
La coscienza differisce dunque dal senso morale (o sinderesi), il quale è l’habitus dei primi princìpi della legge naturale; dalla ragione pratica, il cui ambito è molto più vasto e che è più facoltà che atto; e infine differisce dalla coscienza psicologica, la quale ci attesta i nostri stati interiori senza illuminare per nulla sui nostri doveri. La coscienza morale, invece, è tutta nel giudizio estimativo della nostra propria condotta; essa attesta che noi facciamo, abbiamo fatto o intendiamo fare bene o male in quella data circostanza, ci lega o ci scioglie, ci difende o ci accusa.
I trattati di morale distinguono una coscienza antecedente (che comanda, proibisce, permette, consiglia); una coscienza concomitante (che incita o frena) e una conseguente (che giudica e rimunera con la lode o col biasimo). Coscienza nel significato più stretto è la coscienza concomitante che incoraggia anche dal punto di vista morale l’azione e in qualche modo anche la determina.
Come atto della ragione essa è presupposto dell’atto della volontà e perciò è anche in pratica coscienza antecedente. Poiché la coscienza antecedente termina con l’atto della decisione e quella concomitante con la posizione dell’atto, la coscienza susseguente, che è l’unica a rimanere, è messa maggiormente in rilievo nella vita e nella poesia.
Con S. Tommaso noi riponiamo la radice della coscienza attuale nella “luce abituale” dell’intelletto, nella disposizione morale impressa da Dio nell’anima.
La Scolastica chiama questa radice della coscienza, synderesis. S. Tommaso la definisce come capacità e abito innato e immutabile della ragion pratica, per la conoscenza dei primi principii della moralità; egli la pone in stretto rapporto col lume innato della ragione in generale. Il contenuto della coscienza originaria coincide col principio fondamentale e immediatamente evidente della moralità: bonum faciendum, malum vitandum (bisogna fare il bene, evitare il male). Man mano che questo primo principio morale attraverso l’esperienza, l’istruzione, le leggi positive ecc. acquista un contenuto più ricco e più determinato, nella sinderesi (l’abito innato della coscienza) si viene formando l’habitus della scienza morale (la scienza morale corrisponde all’abito acquisito della coscienza). Quando la ragione da ambedue gli habiti tira conseguenze per l’agire suo personale, il che avviene per mezzo di un comando attuale e pratico, allora si ha la coscienza in senso stretto (actus conscientiae).
La coscienza è il giudizio ultimo – practicum – su ciò che in questo momento, in questa circostanza è moralmente comandato o permesso, per es. se “io” con questo raffreddore sono tenuto o meno ad andare a Messa. Il giudizio speculativo invece giudica indipendentemente dalla situazione e dalla questione concreta: per es. se o in quali casi si è scusati da quell’obbligo.
La definizione di S. Tommaso non include nel concetto di coscienza solo l’elemento logico-razionale, ma anche elementi della vita istintiva ed emotiva.
Anzitutto secondo S. Tommaso la coscienza non si esplica sempre e necessariamente alla maniera di un sillogismo formale, in cui la sinderesi col suo principio universale faccia da premessa maggiore, la coscienza morale del caso concreto da premessa minore, e la decisione della coscienza da conclusione (per es. non bisogna fare il male. Mentire è male, dunque è proibito). Indubbiamente, è l’intelletto che attinge le prime verità morali; le conseguenze e le applicazioni si ricavano anch’esse per via di deduzione logica, ma per lo più attraverso una conclusione virtuale, a causa di modi di vedere abituali, di esperienza viva, di accettazione fideistica. Hanno la loro importanza anche la disciplina della volontà al bene in generale e talune particolari tendenze dello spirito e della sensibilità; esse ci spiegano la forte impressione che la coscienza provoca sul sentimento. Tuttavia, questi sentimenti di gioia o di dolore non sono il criterio del bene o del male, bensì la reazione dell’essere personale, immagine di Dio, che si ripercuote nella sensibilità.
Anche l’espressione popolare, secondo cui la coscienza è la voce di Dio in noi, appare giustificata col nostro punto di vista. Infatti la forza perenne di verità insita nella sinderesi deriva da Dio; e l’attività normativa della ragione costituisce sempre, secondo la nostra teoria, solo la regola secondaria della morale, il riflesso della legge divina in noi.
Se si definisce la coscienza come testimonianza vivente dell’immagine di Dio nell’anima in favore del bene morale (come qualcosa di conforme a Dio e all’uomo) e contro il male morale (come qualcosa di contrario a Dio e all’uomo), allora s’include nella coscienza, come momento fondamentalissimo, la coscienza morale (coscienza logica). Questo momento è però un atto dello spirito, a cui partecipano altre forze dell’anima (coscienza psicologica). Infine la reazione emotiva è l’eco dell’essere-immagine di Dio nel suo attualizzarsi attraverso l’atto morale in conformità o in discordanza con la sua essenza (coscienza ontologica). Solo questa visione sintetica porta alla comprensione piena del fenomeno della coscienza e anzitutto del suo alto significato personale, reale, esistenziale, profondamente psicologico.
Una esatta formazione della coscienza delle persone mature è importante specialmente per i direttori spirituali, per i genitori, per gli educatori, per gli uomini politici, per i commercianti, per i giornalisti, per quelli a cui è affidata la direzione degli altri.
Ciò vale soprattutto oggi di fronte alla involuzione e al naufragio delle coscienze in settori sempre più larghi.