La dinastia dei Brueghel. I signori dell’arte fiamminga

«Egli merita da tutti di essere imitato. Il nostro Brueghel ha dipinto, come dice Plinio a proposito di Apelle, molte cose che non possono essere dipinte. In tutte le sue opere c’è sempre più pensiero che pittura»: con queste parole il libraio e cartografo fiammingo Abraham Ortelius nell’Album Amicorum (dopo il 1550) tenta di descrivere il sistema pittorico di Pieter Brueghel il Vecchio (1520/25-1569), il capostipite di una delle più prolifiche e artisticamente fortunate famiglie di pittori delle Fiandre.
La mostra, allestita fino al 2 giugno 2013 nelle sale del Chiostro del Bramante a Roma, raccoglie i dipinti dei Brueghel dalla metà del Cinquecento fino alla fine del Seicento, in un percorso ricco di suggestioni e rimandi alla cultura del tempo. I curatori Sergio Gaddi e Doron Lurie offrono un interessante taglio critico, concentrandosi sulla modernità del linguaggio, che si sviluppò attraverso i decenni, e sulle selezioni di soggetti particolari, che rese l’arte di quella bottega fortemente riconoscibile.
Alla metà del Cinquecento, mentre in Italia furoreggiavano artisti del calibro di Michelangelo Buonarroti e Tiziano Vecellio, il panorama culturale che in quegli stessi anni si andava definendo nei Paesi Bassi era molto differente. L’arte italiana, sulla base delle precedenti esperienze umanistiche, tendeva a descrivere un mondo in cui la centralità dell’uomo era primaria, pur nel suo rapporto con il Divino, e tendeva a un ideale di perfezione assoluta.
Invece nella terra di Brueghel, gli effetti del Protestantesimo e del proliferare delle teorie calviniste, avevano riportato bruscamente l’attenzione sulla natura che circondava l’uomo e sul paesaggio, che perdeva in questo modo il suo connotato di semplice sfondo dell’agire umano, aspirando invece al ruolo di protagonista all’interno dell’opera d’arte. In quel periodo storico si creò la frattura fra le province del Nord dei Paesi Bassi, protestanti, e le cattoliche province del Sud, dove era giunto il Duca d’Alba, inviato da Filippo II di Spagna, per sedare la rivolta religiosa e politica scoppiata nel 1566.
L’arte di Pieter Brueghel il Vecchio e dei pittori fiamminghi della metà del secolo è certamente condizionata, oltre che dai rivolgimenti storico-politici, anche dagli scritti di personaggi come Erasmo da Rotterdam e Sebastian Brant e dall’universo visionario e fantastico del pittore Bosch, noti per aver rappresentato, all’inizio del secolo, un mondo in cui era predominante la contrapposizione tra bene e male e in cui l’uomo era in perenne lotta interiore tra fede e superstizione, tra culto del bello e tentazione diabolica. Inoltre i bestiari medievali e i libri miniati che nei Paesi del Nord circolavano diffusamente, raffiguravano la facilità con cui il fedele poteva perder la retta via.
Le prime sale della mostra romana offrono chiaramente questa visione terrificante con quadri quali i Sette peccati capitali, capolavoro di Bosch e la Torre di Babele. Questa visione inquieta, sempre in bilico tra il giusto e il demoniaco venne colta da Brueghel e trasferita nei suoi dipinti che divennero così cronaca realistica di un preciso modo di sentire. I suoi paesaggi, perfetti nell’equilibrio e nell’armonia dei colori, si contrappongono alla raffigurazione di un’umanità corrotta e perduta. Ma la ricerca della salvezza delle anime è costantemente presente e rende tali immagini al pari di moniti moraleggianti, con la finalità di indicare la giusta direzione per la vita eterna.
Anche l’ironia e lo scherzo furono sempre presenti nell’opera del maestro, che raccontava la realtà popolare, ispirandosi sovente ai motti e ai proverbi più diffusi del tempo. La sua è un’arte parlante, comprensibile a tutti, in cui le vanitas si alternano alla raffigurazione della follia e in cui le classi umili divengono la metafora dell’intera esistenza umana: tali personaggi miseri sono veri e propri antieroi che offrono inconsapevolmente a chi osserva indicazioni per la redenzione e la salvezza. Le feste popolari, i banchetti di nozze e le scene di piazza sono rappresentate frequentemente sulle tele, così come quello che diventò un vero e proprio genere distintivo di Brueghel, ossia il paesaggio invernale. Questi temi tornano con frequenza nei lavori degli eredi dell’artista fiammingo; fra questi in particolare i figli Pieter il Giovane e Jan il Vecchio furono responsabili della diffusione e della fama delle opere paterne in tutta Europa.
Pieter Brueghel il Giovane (1564-1637/38) fu autore di quadri connotati da una maggior leggerezza di quelli del padre e da una immediatezza nella comprensione, che li avvicina al racconto cronachistico. I significati moraleggianti, mescolati sapientemente al racconto della vita quotidiana, sono facilmente leggibili e quasi didascalici. Suo fratello Jan il Vecchio (1568-1625), più mondano ed elegante, soprannominato dai contemporanei “Brueghel dei Velluti” per la sua raffinatissima tecnica pittorica, per primo in famiglia inserì nelle composizioni i fiori e le nature morte. Il suo allegorismo, di salda cultura cattolica, e la sua pittura quasi tattile furono elementi molto apprezzati al suo tempo e gli portarono collaborazioni prestigiose.
La sua eredità fu raccolta dal figlio Jan il Giovane (1601-1678), cui la mostra dedica ampio spazio, che proseguì con impegno il lavoro della bottega di famiglia, riprendendo lo stile floreale del padre con aggiunte esotiche atte a stupire l’osservatore per la profonda perizia tecnica e per la selezione fantasiosa di elementi. Questa poetica del meraviglioso, in cui brani della natura vengono composti tra loro, ha come scopo quasi sempre la rappresentazione allegorica del mondo. Simboli e allusioni divergenti arricchiscono i quadri creando una affascinante sensazione di pienezza formale, molto nordica e distante dalla poetica pittorica diffusa nella nostra penisola.
Con il diffondersi delle opere di bottega e grazie anche a numerose collaborazioni con artisti quali Francken e Balen, quello che fu definito lo “stile Brueghel” fece fortuna e divenne importante al pari del marchio di una casa di moda al giorno d’oggi. Di padre in figlio, di fratello in fratello, la pittura della famiglia continuò a diffondersi e ad evolversi senza soluzione di continuità. Dalla seconda metà del Seicento la bottega dei Brueghel era già considerata leggendaria. Uno dei più rinomati narratori in pittura di quel momento artistico è David Teniers il Giovane (1610-1690), cognato di Jan il Giovane, che nelle sue opere descriveva la vita quotidiana con grande semplicità e una accettazione, ormai ben lontane dal piglio moraleggiante del capostipite Pieter il Vecchio.
Un altro cognato di Jan il Giovane, Jan van Kessel il Vecchio (1625-1679), si dedicò invece tutta la vita a dettagliati studi pittorici di farfalle, insetti e conchiglie, condotti con ammirevole precisione scientifica. L’ultimo rappresentante della fortunata famiglia fu Abraham Brueghel (1631-1697) che si stabilì in Italia, discostando significativamente il suo stile da quello dei suoi predecessori. Ormai, alle soglie del XVIII secolo, si concludeva la suggestiva epopea della famiglia fiamminga dei Brueghel.
Questo testo di Michela Gianfranceschi è tratto dalla rivista Radici Cristiane. Visita il sito radicicristiane.it