La coscienza dubbia

Nel caso in cui la coscienza sia incerta sulla qualità morale di un atto, questo atto non è permesso, perché non è ragionevole agire moralmente a caso. Bisogna perciò lavorare ad illuminare la coscienza con ogni mezzo razionalmente possibile e con esemplificazioni concrete, tanto più necessarie quanto più importante è l’oggetto a cui sono applicate.
Quando il dubbio persiste, e quando bisogna agire senza aver potuto prima consultare persone competenti e sagge, ci si deve formare una coscienza, si deve cioè pervenire almeno ad una certezza indiretta e pratica, in virtù della quale si prende la decisione più ragionevole, pronti a mutarla appena ci accorgiamo di esserci ingannati.
I moralisti distinguono tre possibili comportamenti per la formazione della coscienza.
Gli uni giudicano che dinanzi ad un semplice precetto non moralmente certo ci si deve sentire liberi; basta allora prospettarsi una seria probabilità ed attenersi ad essa (probabilismo). Altri reputano che, anche nel dubbio, bisogna scegliere il partito più probabile (probabiliorismo). Il tuziorismo sostiene, infine, che ci si deve attenere sempre al partito più sicuro, che è, praticamente, quello più favorevole alla legge.
Il primo sistema ci sembra il più vero: se, infatti, v’è un dubbio che investe e l’esistenza della legge e la sua applicazione, la legge è come se non fosse promulgata ed è quindi come se non ci fosse. Si è dunque liberi di agire in un senso o in un altro. In questo caso si applica il principio: libertas possidet.
Notiamo tuttavia che per usare di questa libertà, occorrerà un motivo razionale, perché nessun atto si giustifica per il solo fatto di non essere stato proibito: bisogna che ci sia anche un oggetto conforme al fine degli atti umani, e cioè al bene morale. Senza questo motivo razionale, si avrebbe quello che i moralisti chiamano lassismo, che è, in generale, un abuso della libertà.
Osserviamo pure che quando un atto può far correre seri pericoli, fisici o morali, al prossimo o a se stessi, la carità verso il prossimo o verso se stessi potrà esigere che vi si rinunci. In questo caso si applica il principio: tutiora sunt sequenda.
TEORIA E PRATICA – Vediamo ora in che senso può essere legittimo e in qual senso è erroneo opporre la teoria morale alla pratica. Più volte, infatti, si sente dire che un abisso incolmabile separa i princìpi della condotta morale e la realtà concreta della vita. Vi è in questa opinione assai comune un errore di diritto e uno di fatto. Ogni condotta, per dirsi morale, di diritto, deve essere razionale, e, per conseguenza, determinata da un giudizio della ragion pratica conforme ai princìpi del dovere. Se, di fatto, i casi concreti sono complessi, mentre i princìpi, per definizione, sono generali e semplici, non ne segue che i princìpi non abbiano nulla a che vedere con la realtà dell’esperienza; si deve concludere solo che molteplici princìpi distinti, relativi agli aspetti morali complessi di ciascun caso, possono entrare in gioco simultaneamente. Il compito della coscienza morale è allora quello di conformare la condotta al principio che essa giudica urgente e prevalente, in ragione del bene essenziale dell’individuo o del superiore interesse del bene comune della società. La decisione della coscienza, che talvolta sceglie la trasgressione di una legge morale per salvare una legge superiore, è dunque giusta e saggia soltanto nella misura in cui tale decisione si compie conformemente ai princìpi che regolano la condotta morale in simili casi.
Facciamo un esempio per chiarire questo concetto. Nell’ambito clinico vi sono alcuni principi che regolano la condotta morale del medico che opera. (1) il primo principio è quello di non maleficenza, noto come “primum non nocere, neminem laedere”, per cui il medico non può nuocere ad alcuno, (2) il secondo principio è quello di beneficialità per cui il medico deve sempre ricercare il bene del paziente in ogni suo atto, (3) il terzo è il principio di autonomia, che vale sia per il medico che per il paziente, (4) un quarto principio è quello di totalità o principio terapeutico, che è quello su cui si fondano praticamente tutti gli interventi chirurgici. Esso è stato definito da San Tommaso d’Aquino (II-IIae, q. 65, a. 1) e prevede che si possa disporre di una parte per le esigenze del tutto.
«Un organo, essendo una parte del corpo umano, è per il tutto […]. Si deve perciò disporre di un organo del corpo umano secondo le esigenze del tutto. Ora, ogni organo del corpo umano di per sé è utile al bene di tutto il corpo: tuttavia può capitare che gli sia nocivo, quando un membro infetto, per esempio, minaccia l’infezione di tutto il corpo. Se un organo, quindi, è sano e normale, non si può asportare senza un danno per l’intero corpo […]. Se un organo è un focolaio d’infezione per tutto il corpo, allora col consenso dell’interessato è lecita la sua asportazione per la salute di tutto il corpo: poiché a ciascuno è commessa la cura della propria salute».
Nel caso di un arto, ad esempio in cancrena, da asportare, subentra necessariamente un conflitto di principi per i quali uno viene trasgredito in conseguenza dell’urgenza dell’altro. Il principio di totalità in particolare, serve a superare il conflitto che può crearsi tra il principio di benificialità e quello di non maleficenza. Si nuoce in questo caso ad un arto non per il puro piacere di infliggere un danno (il che sarebbe moralmente proibito) ma perché non v’è altro modo di tutelare la totalità del corpo senza il sacrificio di una parte. Ecco che dunque, in questo caso, la coscienza del medico si decide per la trasgressione del principio di non maleficenza al fine di tutelare la legge superiore della tutela della vita.
VALORE DELLA COSCIENZA MORALE – Il problema del valore della coscienza morale è distinto da quello del valore del senso morale. Tuttavia la maggior parte dei moralisti confonde le due questioni, come se il valore dell’ultimo giudizio pratico, che determina ciò che si deve o non si deve fare in un determinato caso concreto, potesse essere della stessa natura e dello stesso grado di quello dei giudizi che enunciano i princìpi universali del bene. Da ciò deriva il carattere confuso del problema del valore della coscienza, in cui le asserzioni possono essere vere e false secondo che si riferiscano alla coscienza o al senso morale.
In ciò che concerne il senso morale, noi abbiamo visto che è realmente infallibile solo per i primissimi princìpi dell’ordine morale, e che è sempre più soggetto all’ignoranza e all’errore a misura che discende dai precetti secondari della legge alle applicazioni e conclusioni remote. La scienza morale propriamente detta, non può avere la sicurezza relativa del senso morale, poiché essa investe casi concreti e singoli, che esigono spesso un difficile discernimento. Le inevitabili esitazioni della coscienza bastano a segnarne i limiti. L’esperienza mostra, inoltre, che la coscienza, fallibile perché non sempre sufficientemente illuminata, è anche fallibile per difetto di rettitudine morale. Tuttavia, la coscienza non si inganna sempre. Quando è erronea, può essere rettificata con la riflessione, lo studio o i consigli di persone prudenti. La coscienza si perfeziona soprattutto attraverso la pratica del bene per cui giunge (senza essere mai infallibile) a funzionare rettamente, con una sorta di spontaneità, che è il segno proprio della virtù della prudenza.
Queste osservazioni ci mettono in grado di vedere quello che vi è di eccessivo e di unilaterale sia nello scetticismo circa il valore della coscienza morale, sia nelle tesi istintivistiche, che attribuiscono alla coscienza – senza precisare se si tratta di senso morale o di coscienza morale – una infallibilità che in realtà le appartiene soltanto in relazione al principio primo della moralità e ai suoi derivati immediati.