La battaglia della flotta dispersa

La battaglia della flotta dispersa. Così gli Ottomani chiamarono la sconfitta subita a Lepanto. Problemi economici, del resto, li costrinsero a puntare sull’esercito di terra, il che rese la loro forza navale meno minacciosa d’un tempo. L’Occidente, a Lepanto, non avrebbe dovuto vincere, analizzando semplicemente le forze in campo. Il trionfo giunse perché allo scontro partecipò gente ancora capace di affidarsi a Dio.
Se da un lato si è sempre voluto minimizzare l’effetto di Lepanto, da un punto di vista strategico ad un certo punto il Sultano si pose sulla difensiva. Non si può parlare di dominio dei mari, perché nel Mediterraneo non si poteva dominare proprio nulla; i musulmani persero però l’iniziativa, che detenevano almeno dalla battaglia di Prevesa, svoltasi nel 1538, quindi una trentina d’anni prima della battaglia di Lepanto. Così il gioco passò all’Occidente cristiano.
In presenza di una crisi economico-finanziaria, gli Ottomani decisero per l’esercito di terra e questo fu uno degli effetti di Lepanto. La loro flotta pertanto non rappresentò più quella minaccia ch’era stata in passato.
Le forze in campo, da un punto di vista numerico, erano pari. Con una differenza. I marinai musulmani, i rematori della flotta ottomana, quelli del sultano, erano addestrati a combattere, e avevano truppe più esperte… Da fonti veneziane sappiamo che stavano costruendo navi di qualità pari a quelle occidentali.
Allora, cosa cambia il paradigma a Lepanto? I veneziani non si conformarono alla logica del tempo, che assegnava la vittoria a chi avesse catturato più navi. Con pochi uomini a disposizione, loro le navi preferirono buttarle a fondo. Sicuramente da un punto di vista di concentrazione di fuoco, le sei galeazze veneziane fecero una grossa differenza. Oltre ad affondare diverse galere, ruppero la formazione musulmana. E questo ebbe il suo effetto sulla battaglia.
Uluç Alì, uomo di mare molto abile, definito «il furbaccio» nei documenti dell’epoca, capì quanto stesse succedendo. Decise non di scappare, ma di allontanarsi dalle galeazze, senza però porsi in una situazione di rischio. Si diresse quindi verso sud e il principe Gianandrea Doria lo seguì. Ad un certo punto si venne a creare un varco nella linea cristiana e Uluç Alì tentò d’infilarcisi dentro, dimostrando una capacità superiore. In seguito Doria venne accusato d’essere un traditore, ma le cose non stavano proprio così: metà delle sue navi si trovavano nelle altre divisioni della flotta cristiana, segno che non voleva sottrarle al rischio dello scontro. A ciò si aggiunga che il Doria era alleato della Spagna, in quel momento egemone in Europa, pur non essendo molto ben vista in Italia, soprattutto a Roma ed a Venezia.
Filippo II non era entusiasta del fatto che don Giovanni d’Austria avesse ingaggiato battaglia, anzi gli aveva ordinato di non farlo. Purtroppo però la lettera era arrivata troppo tardi. Filippo II era chiamato il “re prudente”. Sapeva benissimo che con una battaglia in genere, ed in particolare con una battaglia navale, tutto si metteva a rischio. Lui preferiva tenere sotto pressione gli Ottomani, ma non per questo ingaggiar battaglia, ciò che un comandante davvero prudente ed abile evita a tutti i costi. E poi Filippo sapeva che la paura degli Ottomani teneva fermi e buoni gli Italiani.
La politica – come diceva Bismarck – è l’arte del possibile. Ciò non toglie che, è vero, il sovrano spagnolo fosse un uomo molto religioso: quando arrivò l’ambasciatore Leonardo Donà con la notizia della vittoria di Lepanto, il re stava ascoltando i vespri. Gli fece segno di non interrompere. Al termine, appreso del trionfo, invitò il Donà ad unirsi a lui per il Te Deum.
Questo testo di Niccolò Capponi è tratto dalla rivista Radici Cristiane. Visita il sito radicicristiane.it