Jérôme Lejeune: Apostolo del Vangelo e della vita

Jérôme Lejeune per alcuni è stato prima di tutto il medico che ha salvato la loro vita, la vita delle loro famiglie, la loro dignità umana. Per la comunità scientifica internazionale è stato un ricercatore fantastico, ricompensato con le più alte benemerenze. Per altri è stato il nemico da neutralizzare, perché la sua parola ha sconvolto quel conformismo sociale e scientifico, che mette in pericolo la vita dei suoi pazienti.
Per tutti è stato il grande studioso cristiano, che ha testimoniato con la sua vita e con le sue opere come la Fede e la Scienza non siano contrapposte, bensì complementari. Chi l’ha avvicinato, ha notato il tono della sua voce inimitabile, dolce e tranquillo, ed il suo sguardo limpido, capace di dar coraggio e di guardare lontano. Quest’uomo aveva una marcia in più rispetto alla sua generazione.
Un “medico di campagna”, pioniere della citogenetica
Nato nel 1926 alle porte di Parigi, ha sperimentato, dopo la spensieratezza dell’infanzia, la lunga serie di privazioni e paure provocate dalla seconda guerra mondiale. Rifugiatosi a Etampes (a 50 chilometri dalla Capitale) nella casa di famiglia, con i genitori ed i suoi due fratelli, Philippe e Rémy, ha colto in quegli anni l’occasione per uno studio appassionato.
Grazie alla cultura raffinata del padre, ha scoperto i grandi classici greci e latini, la letteratura e la filosofia, per dedicarsi con entusiasmo al teatro. Dalla lettura di Balzac e dall’esempio di suo nonno veterinario è sbocciato in lui il desiderio d’essere medico di campagna.
Finiti gli studi di medicina, ha compiuto il servizio militare in Germania col cuore rivolto verso la Danimarca, patria di una bella ragazza, incontrata alla biblioteca universitaria. Si chiamava Birthe. Si sono sposati nel 1954 e sono andati ad abitare a due passi da Notre-Dame, a Parigi, in un piccolo appartamento, minacciato d’esser abbattuto, perché insalubre. Sarà dunque qui, al numero 31 di via Galande, ch’egli abiterà per tutta la vita con sua moglie ed i loro 5 bambini.
Al suo ritorno dal servizio militare, si è visto proporre un posto come giovane ricercatore dal prof. Turpin, gran patron della pediatria francese presso l’ospedale Trosseau di Parigi. Una proposta inaspettata per questo giovane medico, ma il prof. Turpin aveva notato le sue capacità ed aveva deciso di affidargli la casistica dei “mongoloidi” – come venivano definiti allora –, cui ben presto si affezionò.
Dopo il 1953, il prof. Turpin e lui posero in evidenza le relazioni dei dermatoglifi (linee della mano) con le caratteristiche dei pazienti affetti dalla sindrome di Down; poi, a seguito di numerose altre osservazioni, scoprirono, con l’aiuto del dottor Gautier che importava dagli Stati Uniti una nuova tecnica di coltura tissutale, il cromosoma supplementare.
Dopo questa prima scoperta e poi con la propria équipe all’Ospedale infantile “Necker”, ha identificato altre patologie cromosomiche ed acquisito un ruolo sempre più importante nella citogenetica mondiale. Ha rapidamente scalato tutti i gradini verso il successo: da assegnista presso il Consiglio Nazionale della Ricerca Scientifica nel ’56 a professore di genetica fondamentale nel 1964, esperto di radiazioni atomiche all’Onu e di genetica umana presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel ’62, eletto membro del Comitato consultivo della ricerca scientifica nel 1965, dell’Istituto Pasteur nel 1967, dell’Inserm nel 1969.
Membro di numerose accademie in tutto il mondo – come l’Accademia dei Lincei –, i suoi titoli internazionali ed i suoi riconoscimenti, tra cui il prestigioso Premio Kennedy nel 1962, riempirono i giornali ed evidenziarono l’ampiezza dei suoi lavori e la riconoscenza nutrita nei suoi confronti dalla comunità mondiale.
La sua originalità consisteva nel saper passare dall’ambito clinico a quello della ricerca. Per lui, questo, è stato un equilibrio da trovare permanentemente: da una parte la cura dei suoi 9 mila pazienti, giuntigli dal mondo intero, e dall’altra l’urgenza di trovare un trattamento per guarirli. Il suo modo eccezionale di trattare i malati lo ha reso ben presto «una leggenda».
L’apostolo della Vita
Quando vedeva i suoi pazienti minacciati dalla diagnostica prenatale e dall’aborto, presumendo come pochi potessero scampare a questa strage degli innocenti, prendeva pubblicamente la parola per difenderli. Quando ricevette a San Francisco nel 1969 il prestigioso premio di genetica, l’Allen Memorial Award, osò addirittura denunciare una medicina snaturata che conduce alla morte, ciò ch’egli descriverà talvolta, col suo senso innato della formula, come una «medicina alla Molière, che invece di sopprimere la malattia, sopprime il malato».
Instancabilmente egli fa appello alla retta ragione dei medici, affinché rispettino il giuramento di Ippocrate, che dal IV sec. a.C. impedisce loro di uccidere. Tanta fermezza gli varrà delle inimicizie e dei problemi, ma rappresenterà la speranza per una moltitudine di famiglie e di malati, che hanno visto in lui il loro miglior avvocato e la loro forza. Chiamato a testimoniare presso i tribunali americani circa l’umanità propria ed intrinseca all’embrione, specialmente nel famoso processo di Maryville, egli ricordava semplicemente come «il piccolo d’uomo sia un uomo piccolo» e lo dimostrava scientificamente.
Benché cattolico fervente, Jérôme Lejeune non ricorreva ad argomenti di Fede, si appoggiava sulla scienza per mostrare l’evidenza e, ciò facendo, mostrava come la scienza e la Fede non fossero tra loro in contraddizione, bensì si completassero.
Medico dei corpi, egli vedeva in ciascuno dei suoi malati, talvolta pesantemente provato e deformato, il volto di Cristo sofferente. La sua vita era guidata da questa chiamata del Vangelo: «Una frase, una sola, detterà la nostra condotta, la stessa parola di Gesù: “Ciò che avete fatto al più piccolo tra i miei, lo avete fatto a me”». Papa Paolo VI lo nominò membro dell’Accademia Pontificia delle Scienze, a Roma e Giovanni Paolo II gli propose di costituire l’Accademia Pontificia per la Vita.
Ne ha gettate le fondamenta, mentre si trovava già in ospedale, minato da un cancro ai polmoni, e l’ha presieduta solamente per qualche settimana, prima di ricongiungersi al Padre, il 3 aprile 1994.
Dopo la sua “nascita al Cielo”, una petizione è stata firmata in America Latina per chiedere l’apertura del suo processo di canonizzazione.
Questo testo di Aude Dugast è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. È possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it