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Il mistero della Corona ferrea di Monza

Tesori d'Italia21 Novembre 2018
Testo dell'audio

La corona ferrea – oggetto straordinario che è insieme cimelio storico, gioiello d’arte e reliquia religiosa – rappresenta oggi, in quanto più antica memoria del Regno italico, uno dei simboli forti della nostra unità nazionale, ma essendo stata insegna del Sacro Romano Impero per tutta la sua millenaria durata, è anche il simbolo delle radici cristiane dell’Europa e della sua antichissima aspirazione all’unità.

Il mistero del ferro

Uno dei misteri di questa leggendaria corona riguarda il ferro che le ha imposto il nome e che secondo la tradizione è quello di un chiodo della croce di Cristo.

Le analisi scientifiche cui venne sottoposta negli anni Novanta non ne hanno trovato traccia, tuttavia ci sono indizi che segnalano tale presenza in passato.

Che questo chiodo fosse la cerchiatura che cinge internamente la corona (rivelatasi d’argento all’analisi metallografica del 1993) lo ipotizzò nel Seicento lo studioso monzese Bartolomeo Zucchi (Breve Historia della Corona Ferrea, 1602), ma già nel Settecento Antonio Ludovico Muratori (De corona ferrea, 1719) lo metteva in discussione: la sottile cerchiatura “poteva esserne a stento la terza parte” mentre Ambrogio nel De Obitu Theodosii (395) aveva parlato dell’inserimento di un chiodo intero.

Lo stesso Muratori però portava una testimonianza decisiva per rendere conto del ferro cui la corona deve il suo nome: nel Cerimoniale Romano dell’incoronazione del Barbarossa del 1155 a Roma trovò scritto che la corona usata era detta ferrea perché aveva una lamina metallica sulla sommità («(…) corona ideo appellatur ferrea quod laminam quandam habet ferream in summitate: alioquin aurea et preciosissima»).

La corona aveva dunque allora l’aspetto delle numerose insegne regali europee sormontate da archetti – tra cui quella imperiale di Vienna (X sec.), quella di santo Stefano d’Ungheria (XI sec.), di Carlo V di Boemia (XIV sec.), le corone bizantine e russe – tutte in seguito confezionate sul primigenio modello della ferrea italica.

Il ferro si trovava sopra, in forma di archetti. In origine la funzione di questi archi ferrei doveva essere quella di tenere agganciato il diadema a piastre, che ci rimane oggi, alla calotta di un elmo da guerra: quello di Costantino, citato nell’omelia che Ambrogio tenne al funerale di Teodosio, a Milano, nel 395, nella quale raccontava che sant’Elena, ritrovate le reliquie della passione di Cristo sul Golgota, le pose sull’elmo e nel morso del cavallo del figlio imperatore.

Varie ipotesi ma tutte vane

Come e quando sono scomparsi gli archetti, e con essi il ferro della corona? Il problema si ricollega a quello delle sue ridotte dimensioni odierne: essa presenta un diametro di appena 15 centimetri, inspiegabile senza l’ipotesi di una mutilazione. Tanto più che tra la terza e la quarta piastra appaiono incontrovertibili segni di uno scardinamento del diadema e di una sua forzata ricomposizione (le cerniere sono rimaneggiate e il perno è diverso da quello che tiene unite le altre piastre).

Molti degli studiosi che nel susseguirsi degli anni si sono occupati della corona hanno scartato l’ipotesi di una mutilazione adducendo le tesi più disparate. Era la corona di un re bambino (Adaloaldo, figlio di Teodelinda) per il De Murr (1700); era un collare barbaro per Adolfo Venturi (1901); un’armilla, un bracciale da manica, per l’ungherese Barany-Obershall (1950); era una corona femminile (di Ghisela, nipote di Carlo Magno e madre di Berengario I) per Reinhard Elze (1956); era una piccola corona votiva da appendere sopra l’altare per Augusto Merati (1982), Luciano Caramel e Victor Elbern (1998).

L’ipotesi realistica della mutilazione

L’ipotesi della mutilazione del diadema originario venne proposta all’inizio del 1900 dall’esperto di arte ravennate Angelo Lipinsky, il quale esibì la testimonianza dell’Imperatore Costantino Porfirogeneto secondo cui era costume bizantino concedere ai barbari insegne scorciate. In quello stato nel V secolo l’imperatore Anastasio restituì il cimelio a Teoderico, vincitore su Odoacre: chiari riferimenti al fatto si trovano nel Panegirico del vescovo poeta di Pavia, Ennodius, e nel racconto del cronista del re ostrogoto, l’Anonymus Valesianus. In questa occasione Teoderico lo fece ricoprire di smalti barbarici (le attuali lastrine, come conferma la datazione al carbonio14) e lo pose sul suo elmo da guerra, il kamelaukion.

La corona venne mutilata due volte: la prima ad opera dei Bizantini nel V secolo, e la seconda quando scomparve durante le lotte per le investiture imperiali tra il XIII e il XIV secolo.

Il diadema ferrato che calzava perfettamente sul capo leonino del Barbarossa nel 1155, dopo l’incoronazione di Ottone IV di Brunswick del 1208 non venne più usato e nel 1355, anno in cui fu incoronato Carlo IV di Boemia-Lussemburgo, ricomparve nelle dimensioni attuali.

Lo storico monzese Bonincontro Morigia, nel Chronicon Modoetiense (1350 ca), riportò la notizia che l’arciprete Manfredo Della Torre nel 1272 impegnò il tesoro del duomo presso i frati Umiliati della Casa di Sant’Agata per fronteggiare le spese che lo zio Raimondo Della Torre doveva sostenere per la sua nomina al patriarcato di Aquileja e quelle di guerra dei Della Torre milanesi per impedire a Ottone Visconti, nominato da Papa Urbano IV vescovo di Milano, di prendere possesso della sua sede.

Il Visconti inviò allora il legato Omnebonus da Ravenna a inventariare i beni del duomo di Monza (1275), e il notaio modoetiense Jacobus Pazus si recò per la bisogna alla Casa di Sant’Agata. Lo scorciamento della corona ferrea non poteva passare inosservato: e infatti venne denunciato nell’inventario notarile, ancora conservato nella biblioteca capitolare, in cui essa viene definita parva, cioè piccola, e descritta priva di qualsiasi elemento ferreo (dunque da essa era stata espunta anche la laminam quandam del Cerimoniale Romano).

Lo scorciamento della corona, tra l’altro, segnò la fine dei Torriani, quando nel 1310 Arrigo VII la richiese ai Della Torre di Monza – che non potevano mostrare al sovrano una corona di 15 centimetri di diametro nella cui mutilazione la loro famiglia era direttamente implicata – e li proscrisse da Milano lasciando a Matteo Visconti la carica di vicario imperiale.

Ulteriori peripezie

E ancora, tra parentesi, neppure dopo che Matteo Magno Visconti, sborsando 26.000 fiorini d’oro, nel 1319 la riscattò dagli Umiliati, la corona ferrea ebbe vita tranquilla. Quando Matteo appoggiò un candidato imperiale inviso al papa – Ludwig di Baviera – e fece nominare suo figlio Giovanni vescovo di Milano, nel 1322, venne scomunicato e da Avignone il Papa Giovanni XXII gli bandì contro una crociata; a Monza allora, per proteggere la corona da eventuali predazioni, i canonici del Capitolo di San Giovanni sotterrarono il tesoro del duomo in un luogo segreto, ma il diacono Aichino da Vercelli rivelò in confessione il nascondiglio e Bertrand du Poujet, il generale del papa, lo fece recuperare e lo inviò ad Avignone nel 1324.

Qui la corona subì un furto da cui scampò quasi miracolosamente: il ladro, dopo aver sottratto il forziere dalla chiesa della rocca papale, aveva tentato di vendere la refurtiva a un orafo del luogo, che per sua sfortuna era un fiorentino e riconobbe la ferrea.

Nelle due mutilazioni la corona perse dunque il suo ferro, ma non il suo nome che lo ricordava. Inoltre di esso sono rimasti alcuni residui.

La scienza odierna ha rinvenuto elementi ferrosi

Ognuna delle sei piastre di cui il diadema è attualmente composto presenta molti fori, tutti sullo stesso margine. In quelli più grossi, trovati in testa a tre delle piastre, il naturalista Augusto Calderara ha rilevato (1995) ruggine di ferro, reagente a calamita. Escluso che tali fori servissero a tenere appesa la corona, poiché la loro posizione non avrebbe mai consentito all’oggetto di stare diritto (Lusuardi, 1998), Calderara li classificò “di uso ignoto”.

Ma nella ricostruzione della successione originaria delle piastre sulla base della continuità dei decori e della congruenza delle cerniere (Maspero, Storia della corona ferrea, 2008), questi fori assumono una posizione tra loro simmetrica, ad x, compatibile con i punti d’aggancio degli archi ferrei che tenevano fisso il diadema sulla calotta dell’elmo originario. I residui metallici ritrovati in quei fori deriverebbero dunque da quel ferro che la tradizione afferma essere stato forgiato dal chiodo della croce di Cristo.

Certo questo materiale ferroso potrebbe essere confrontato con quello che compone il morso del cavallo di Costantino, conservato nel duomo di Milano – la reliquia gemella proveniente dai ritrovamenti di sant’Elena – e una lega metallica simile deporrebbe a favore di una origine comune dei due oggetti. Potremmo allora avere una prova scientifica: ma la corona del ferro perderebbe molto del suo fascino legato ai misteri che la circondano ancora, dopo 1500 anni.

 

Questo testo di Valeriana Maspero è stato tratto dal periodico Radici Cristiane. È possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it

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