Hafiz, moschea di Parigi: «Il vero islamismo è talebano»

Piaccia o non piaccia, il volto dell’islam pare sempre quello. Lo confermano i 15 arresti di “simpatizzanti” talebani, compiuti lo scorso 23 settembre dall’intelligence russa, l’Fsb. Come riferito dall’agenzia Tass, appartenevano ad un’associazione terroristica musulmana, attiva nel territorio della Sverdlovskaja Oblast, la regione con capitale Ekaterinburg, sugli Urali. Pare che non tenessero solo incontri di propaganda sulla jihad, ma che stessero organizzando anche attentati «contro gli infedeli», tanto che gli inquirenti hanno sequestrato loro circa tre chili di nitroglicerina.
Degli individui finiti in carcere, solo quattro tagiki ed un russo vi sono rimasti, tutti gli altri sono stati rispediti nei loro Paesi d’origine. Un episodio, che sembra stroncare sul nascere gli accordi stretti a Kabul nei giorni precedenti da Russia, Cina e Pakistan con i dirigenti talebani, dettisi di nuovo «molto cambiati in questi 25 anni», al fine di «contrastare il terrorismo ed il narcotraffico a livello internazionale», ma pare più a parole che nei fatti. Oltre tutto, il braccio armato dell’Isis in Afghanistan ha preso di mira, con azioni di guerriglia, tra i nuovi leader, quelli ritenuti più moderati: benché il portavoce del governo talebano, Zabihullah Mujahid, tenda a minimizzare il pericolo, serpeggia viva preoccupazione tra i comandanti.
Anche in Europa qualcosa sta accadendo: spesso sono proprio gli episodi minori a rivelare, in modo sintomatico, mali silenti ma presenti. Lo scorso 25 settembre il musicista congolese Noël Ngiama Makanda non ha potuto esibirsi allo Zénith di Parigi. A cancellare il previsto concerto ha provveduto il Prefetto di Parigi, Didier Lallement, motivando il provvedimento col «contesto politico particolarmente teso e violento tra sostenitori e oppositori del regime in vigore» nella Repubblica Democratica del Congo. Essendo l’artista vicino al governo, il timore era che oppositori e ribelli potessero creare disordini nel corso dell’esibizione.
Già nel febbraio dell’anno scorso, a Bercy, scoppiarono incidenti violenti durante il concerto di un’altra star congolese, il cantautore Fally Ipupa, ritenuto sempre filogovernativo. E timori aleggiano già circa quattro altri spettacoli simili, quelli di Félix Wazekwa e Fabregas a Lione, rispettivamente il 23 ottobre ed il 13 novembre, nonché quelli di Ferré Gola il 7 novembre al Casino de Paris e di Koffi Olomide il 27 novembre alla Défense Arena.
Nella Repubblica Democratica del Congo si registrano scontri frequenti e particolarmente violenti tra l’esercito e le varie fazioni islamiche, facenti riferimento all’Adf, le Forze Democratiche Alleate, ben strutturate col terrorismo internazionale, tanto in termini di reclutamento quanto in termini di finanziamento, in particolare con al-Shabaab, al-Qaeda, con l’Isis, con Boko Haram e coi talebani. Son proprio queste reti a consentire ai ribelli di colpire senza difficoltà anche all’estero e di rappresentare non solo un timore, bensì un pericolo reale, ad esempio durante un concerto in Francia, come le cronache dimostrano.
Situazioni analoghe si registrano in una Tunisia scossa da una profonda crisi politica. Nei giorni scorsi 113 membri di Ennahdha – tra i quali deputati, funzionari di partito, ex-ministri, esponenti del Consiglio della Shura – hanno annunciato le proprie dimissioni dal partito, per protestare contro le «scelte sbagliate» ed «il fallimento» del presidente Rached Ghannouchi, che avrebbe condotto la compagine all’isolamento, inducendo il presidente Kaïs Saïed ad arrogarsi pieni poteri, compreso quello giudiziario, liquidare il primo ministro e sospendere le attività del Parlamento, legiferando a colpi di decreto.
Da notarsi come la stessa storia di Ennahdha sia tutt’altro che tranquilla: pur avendo ripudiato il ricorso alla violenza come strumento di lotta politica, il partito è stato più volte messo al bando e, secondo molti osservatori, sarebbe comunque rimasto in un’ottica quanto meno ideale del fondamentalismo, vagheggiando una “via tunisina” all’islamismo. L’ostentata moderazione altro non sarebbe, se non la ben nota arte della dissimulazione (la taqiya).
Nulla di cui stupirsi, a meno che non ci si ostini a tenere paraocchi ideologici: in una recente intervista al settimanale Jeune Afrique, Chems-Eddine Mohamed Hafiz, da un anno e mezzo rettore franco-algerino della Grande Moschea di Parigi, spiega molto bene questo punto. Egli ha condannato senza tanti giri di parole l’islam «politico» nel suo insieme; nel marzo scorso ha ritirato l’istituzione da lui retta dal Cfcm, Consiglio francese della fede musulmana, ed ha pubblicato un Manifesto contro il terrorismo islamista. «L’applicazione dell’islamismo è il talebano – ha dichiarato, senza mezzi termini – Pertanto, non ci può essere un islam moderato».
Dopodiché su questo concetto, molto chiaro, si possono formulare – ed, infatti, si sono scatenate – le più varie ipotesi, ma il concetto resta. Ad esempio, secondo il politologo francese Olivier Roy, docente presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze, il terrorismo jihadista altro non sarebbe se non l’«islamizzazione del radicalismo»; di parere opposto il suo collega e connazionale Gilles Kepel, secondo cui esso sarebbe, invece, la radicalizzazione dell’islam, concetto sposato anche dal presidente Macron, mentre il ministro per l’Istruzione superiore e per la Ricerca, Frédérique Vidal, ha commissionato al Cnrs, il Centro nazionale della ricerca scientifica, un’indagine sull’«islamo-sinistra», che avrebbe invaso il mondo universitario ed imposto il suo dominio sulle scienze sociali: tutto questo ha spostato una discussione accademica in campo politico, senza però offrire ancora risposte reali all’affermazione, netta e circostanziata, di Chems-Eddine Hafiz. Affermazione, da cui dovrebbero discendere invece, a cascata, valutazioni politiche e, di conseguenza, scelte concrete.