Gli atti moralmente cattivi e le loro condizioni (peccato)

Oggi iniziamo con questo podcast ad esaminare più approfonditamente gli atti cattivi e
dunque il peccato. Cominceremo con l’essenza del peccato.
Il peccato è una trasgressione della legge morale divina, compiuta con libera volontà e
chiara conoscenza morale.
a) S. Agostino ha dato la definizione divenuta poi dominante: “il peccato è un’azione, una
parola o un desiderio contro la legge eterna”. La seguente espressione: “la legge eterna
poi è la ragione o la volontà di Dio, che comanda di conservare l’ordine naturale e vieta
di turbarlo”, da una parte riconduce la norma morale alla sua più profonda origine, la
divina sapienza e santità. D’altro canto indica il suo contenuto concreto nell’ “ordine
naturale” delle cose. Quest’ordine, prosegue S. Agostino, viene turbato se la volontà
umana preferisce un bene inferiore a un bene più alto; per esser precisi, il peccato vero e
proprio ha luogo quando la volontà umana pospone il bene sommo e la pienezza
dell’essere e della perfezione a un bene limitato, al confronto insignificante. E poiché
l’uomo in tali beni limitati in ultima analisi cerca sempre se stesso, il peccato è insieme
una defezione della creatura da Dio verso se stessa.
“La volontà, allontanandosi dal bene immutabile o comune e volgendosi al bene proprio, o
a un bene esteriore o a un bene inferiore, pecca”. “Si pecca infatti non perché ci si rivolge ai
mali, ma per il modo cattivo; cioè non perché ci si rivolga ad esseri cattivi, ma perché
violando l’ordine degli esseri, invece di rivolgersi a ciò che è sommo si va a ciò che è
inferiore”. “Allontanatisi da ciò che è sommo, si sono rivolti verso se stessi … Questa è la
prima mancanza, la prima miseria, il primo male.
Questa prima mancanza, cioè l’atto cattivo in se stesso è, secondo S. Agostino, l’opposto
della perfezione, cioè del bene morale. Da essa si sviluppano spontaneamente tutti gli
ulteriori danni prodotti dal peccato. Come uno che si allontana dal sole, muore per il freddo,
il buio e la debolezza, così il peccatore che volge le spalle a Dio deve diventare
necessariamente freddo, oscuro, scomposto, sfigurato.
b) S. Tommaso e gli altri Scolastici sviluppano questi concetti. “Il peccato non è altro che
l’atto umano cattivo … Ed è cattivo l’atto umano per il fatto che manca della debita
misura. La misura di qualunque cosa si considera per riguardo a una norma … Duplice è
la norma della volontà: una prossima e omogenea, cioè la stessa ragione umana, l’altra è
la prima regola, cioè la legge eterna, che è come la ragione divina”. La Scolastica mette
in rilievo l’opposizione del male morale all’interna legge della coscienza. Riguardo
all’ordine dei beni rileva, con S. Agostino, che ogni peccato ha un momento negativo e
uno positivo: un allontanarsi dal fine ultimo, cioè da Dio (aversio a fine ultimo, id est a
Deo) e un ripiegarsi verso la creatura (conversio ad creaturam). L’allontanamento da Dio
costituisce la precisa essenza e la incalcolabile colpa del peccato come tale.
Si osserva che quest’ultima determinazione vale solo per il peccato mortale. Secondo S.
Tommaso il peccato veniale, benché contiene anch’esso un disordine morale, non è però
peccato in senso vero e proprio: “La divisione del peccato in veniale e mortale non è una
divisione di genere in specie, le quali partecipano in egual modo della natura del genere, ma
una divisione analogica. D’altra parte la vera intenzione del peccatore non si rivolge al
valore negativo, ma a quello positivo di una determinata azione: “l’intenzione del peccatore
non tende ad allontanarsi da ciò che è secondo ragione, ma piuttosto a dirigersi verso un
bene appetibile”. In tutte le trasgressioni, anche nelle più gravi, la volontà ha di mira
qualche soddisfazione, un bene apparente. Ma poiché la volontà col peccato in realtà
abbandona Dio e la sua legge sottraendo a Dio il debito onore, dimostra disistima e
disprezzo di Dio.
Nel peccato non è richiesta necessariamente la rappresentazione del Dio personale, ma
basta, come per il bene naturale morale, la rappresentazione di un incondizionato dovere.
L’“aversio a Deo” e la “conversio ad creaturam” non è necessario dunque che siano
esplicitamente intese. Esse sono sempre implicitamente contenute in ogni trasgressione di
un precetto gravemente obbligante, che sia compita con libera volontà e chiara cognizione.
A questo si può collegare l’idea, del resto inefficace, che non si vorrebbe offendere Dio, né
separarsi da Lui.
c) La filosofia moderna, con la demolizione dell’etica in genere, ha minato anche il
concetto di peccato, affievolendone fatalmente la gravità e la paura. Ciò dipende prima
di tutto dal fatto che ha trasportato il fine ultimo morale nel flusso e riflusso degli
interessi limitati della vita e della creatura. Dipende però anche dalla falsa autonomia
che essa ripone in ogni singola persona, e dalla negazione assai diffusa della libertà della
volontà.
Alcuni vogliono trovare il disordine essenziale del peccato nel fatto che esso turba il
dominio dello spirito sulla sensibilità. Altri trovano necessario per natura l’affacciarsi
del male nel fatto che la volontà degli individui è una volontà per se stessa egoistica, che
si oppone alla volontà universale dell’Assoluto. Quasi tutti i panteisti considerano il
male nel mondo come un momento necessario dello sviluppo della vita universale;
perciò il male sarebbe necessario allo sviluppo del tutto, e anche in sé giustificato. Altri
hanno soprattutto di mira il singolo uomo; trovano per lui scusanti: il peccato è una
debolezza perdonabile che Iddio infinitamente grande non può prendere sul serio; esso
significa per molti uomini un salutare approfondimento, il ponte di passaggio per la
conquista della vera libertà e autonomia.
Contro tutto questo bisogna dire:
a) Queste dottrine sono secondo tutta la loro essenza una negazione di tutta l’etica:
anzitutto dell’etica scientifica, che in generale riconosce il valore sommo incondizionato
e gravemente obbligante della moralità e quindi deve considerare il peccato come il
peggior male, il male assoluto, incondizionatamente riprovevole; inoltre della moralità
pratica vitale, che rende una tale testimonianza per l’aspetto doloroso del peccato, nel
tormento della coscienza cattiva, nella previsione dei castighi futuri, nel linguaggio di
tutti i più profondi pensatori e legislatori dell’umanità, negli effetti visibili dei peccati
nella vita degli uomini, dello Stato e dei popoli.
b) Anche i motivi apparenti di quegli errori possono essere facilmente confutati. Un male
che si presenta necessario per natura e senza colpa non è peccato neanche per il
cristiano. Un peccato che equivale a “perdonabile debolezza” verrà imputato in
proporzione a questa colpa ridotta. Ma se il peccato vero e proprio non contenesse
alcuna colpa, non avrebbe bisogno certamente neanche di remissione. L’uomo occupa
un posto così elevato per la sua spirituale natura, simile a Dio, che può assumere
posizione contro Dio sebbene creatura e addossarsi di fronte a Dio anche la colpa più
grave. È vero che talvolta dal male provengono anche effetti salutari per la società e il
peccatore. Ma la società esperimenta come beni simili effetti, in quanto nel suo seno i
buoni si ribellano al male, lo riconoscono nella sua malvagità e lo combattono con
energia. Anche nel peccatore un rinnovamento morale si verifica solo quando egli si
libera interiormente dal peccato per mezzo della penitenza. Tale rinnovamento consiste
essenzialmente nel fatto che dalla esperienza negativa ricava un odio più profondo al
male, e una più grande stima e amore al bene. Gli effetti buoni non sono quindi da
attribuirsi al male, ma alle buone energie che reagiscono, in ultima analisi,
all’influsso salutare ed elevante di Dio e della sua Grazia.
Pensiamoci bene quando qualcuno ci suggerisce che tutto sommato si può fare anche un
male per ottenere in bene. Mi riferisco, soprattutto, a quanti anche nel mondo cattolico e
pro-life affermano che si può scendere a compromessi e persino accettare leggi ingiuste
come la 194 sull’aborto o la legge 40 sulla fecondazione artificiale.