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Giambattista Tiepolo. Una luce nell’arte

Arte e Cultura06 Agosto 2020
Testo dell'audio

Tra i tanti genii dell’arte che Venezia ha prodotto, uno più di ogni altro ha saputo diffonderne la luce in tutta Europa: Giovambattista Tiepolo (Venezia, 5 marzo 1696 – Madrid, 26/27 marzo 1770), il più importante pittore italiano del Settecento. Ne ricorrono quest’anno i 250 anni dalla morte. Fu un mago del pennello, velocissimo e capace di imprese epiche, sia per i soggetti trattati, sia per l’impegno profuso. Nato a Venezia, già a otto anni disegnava “santini da anello” nella bottega del pittore Gregorio Lazzarini, e a quattordici dipingeva su tela in maniera «spedita e risoluta». Folgorante per lui fu la visione delle opere del Veronese, del Tintoretto e dei Bassano, dai quali trasse quel gusto verso il grandioso e il teatrale, che porterà con sé per tutta la vita.

Veneziani furono i suoi primi committenti: chierici, giuristi e il doge Giovanni II Cornaro. Ma il suo vero esordio come strepitoso frescante avvenne nel 1718, quando il nobile Giovanni Battista Baglioni lo assoldò per decorare la sua villa di Massanzago. In questo luogo inondato di luce, Tiepolo emerse nella sua fantasia, capace di generare immagini in arioso e vorticoso movimento, e nel dominio dello spazio illusionistico, in grado di ampliare all’infinito quello reale. Sarà la prima impresa di una lunga serie, che trasformerà le dimore cittadine e le ville nobiliari in spazi festosi e senza tempo, dove il sole sembra non tramontare mai. Proprio quando Venezia, esclusa dalle nuove reti commerciali e indebolita militarmente, cercava di mascherare nel teatro, nei balli, nel lusso e nella mondanità il suo lento ed inesorabile tramonto.

Nel 1719 Tiepolo sposò Cecilia Guardi, sorella povera e senza dote del noto vedutista veneziano Francesco e del pittore Giovanni Antonio. Con lei ebbe dieci figli, di cui due, divenuti pittori, lo aiutarono nelle sue imprese estere. Nel frattempo cominciò a dedicarsi anche a opere sacre, dimostrando di saper gestire con maestria superfici di ampio formato, come la grande tela della Madonna del Carmelo (oggi a Milano, Pinacoteca di Brera) e il Martirio di san Bartolomeo del 1722. Il suo stile si impose subito per il forte impatto visivo e presto, attorno al 1725, passò da una prima maniera più tenebrosa, segnata da forti sbattimenti di luce e ombra, ad una tavolozza orientata verso i toni luminosi e pastello del rococò. Anche le sue composizioni divennero più ariose, lasciando ampi spazi liberi nella loro parte centrale, dominata dai colori chiari e trasparenti, per concentrare gran parte delle figure sui lati.

Nello stesso periodo cominciò a varcare i confini della sua città, per recarsi ad Aquileia e ad Udine, ove attrassero l’occhio di molti i suoi affreschi per il Palazzo Patriarcale. Sempre più richiesto e conteso, il Tiepolo approcciò con lo stesso piglio trionfante ed epico temi mitologici, allegorici e biblici, mentre si volse in una visione più intimistica nelle pale d’altare, come nell’Educazione della Vergine per la chiesa veneziana di S. Maria della Fava o nell’affresco con Cristo nell’orto degli Ulivi, per gli Scalzi, dove per la prima volta, nel 1732, comparve il collaboratore Gerolamo Mengozzi Colonna, che per lui farà le “quadrature”, le scenografie illusionistiche atte ad inquadrare le sue scene narrative.

Lo stesso effetto scenografico trionfò anche nella Galleria di Palazzo Clerici a Milano, dove il Tiepolo celebrò l’ingresso del Clerici nel patriziato milanese con l’allegoria della Corsa del carro del Sole, mentre nel frattempo l’Europa gli aprì sempre più le porte. E così, la sua pala con san Giacomo Maggiore giunse a Londra ed altre andarono in Sassonia ed a Parigi, altre ancora nella lontana San Pietroburgo.

Tornato in Italia, del 1757 sono i noti affreschi della villa Valmarana “ai Nani” presso Vicenza, tra i migliori esempi del genere, ove rappresentò con strepitosi effetti illusionistici e teatrali episodi tratti dall’epica classica e dai poemi dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata. Mentre l’Apoteosi della famiglia Pisani, nella villa di Stra, ultimo capolavoro di Giambattista in Italia, ritrae i bimbi, piuttosto che gli antenati, della casata patrizia, proiettando la gloria della famiglia più che nel passato sul futuro, a mo’ di augurio, posto sotto la protezione della Vergine, delle Virtù e delle Arti.

Nell’ultima fase della sua instancabile vita, nel 1761, si lasciò convincere dal re di Spagna Carlo III, non senza remore, a trasferirsi a Madrid insieme ai due figli pittori. Giunse quindi nella città nel 1762, per decorare la sala del trono di Palazzo Reale. E da qui non si mosse più, pur suscitando le gelosie del neoclassico Anton Rafael Mengs, il cui stile neoraffaellesco soppiantò presto il luminoso tardo barocco del maestro veneto. Trovandosi a suo agio, offrì al re i suoi servigi permanenti, proponendosi anche come pittore di pale su tela e ricevendo l’incarico di compiere sette dipinti destinati ai rispettivi altari della chiesa di S. Pasquale Babylon ad Aranjuez, poi dispersi in vari musei. In questi capolavori, terminati nel 1769, si nota un cambiamento nell’approccio al tema sacro, perché, pur imponenti, tendono a una maggiore umanizzazione e introspezione dei soggetti. Morì improvvisamente nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1770 a Madrid e fu sepolto nella chiesa di S. Martín a Madrid.

 

Questo testo di Sara Magister è tratto da Radici Cristiane. Visita radicicristiane.it

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