Diocleziano dilaga: in Occidente perseguitati buon senso e dottrina cattolica

Diocleziano è tra noi. Appaiono sempre meno e sempre più sfumate, infatti, le differenze sussistenti tra l’operato dell’imperatore romano (244-313 d.C.), divenuto tristemente celebre per la ferocissima persecuzione scatenata contro i cristiani, e quel che accade ovunque oggi con tanto di carcere e sacrifici umani, a qualsiasi latitudine e longitudine del mondo. Anche nel “civilissimo” Occidente.
Negli Stati Uniti, ad esempio, tre attivisti pro-life – Jonathan Darnel di Arlington (Virginia), Jean Marshall di Kingston (Massachusetts) e Joan Bell di Montague (New Jersey) – sono stati dichiarati colpevoli di aver violato il Face ovvero Freedom of Access to Clinic Entrances Act, la legge federale sulla libertà di accesso agli ingressi delle cliniche abortiste. Oggi rischiano una condanna a 11 anni di galera, per avere, il 22 ottobre del 2020, pregato e cantato inni all’esterno della Washington Surgi-Clinic della capitale americana e per esser successivamente entrati in modo non-violento nella struttura per aborti tardivi, peraltro sospettata di averne praticati anche a nascita parziale e d’aver consentito illegalmente la morte di bimbi sopravvissuti all’aborto. Nell’atto d’accusa si legge: «Lo scopo della cospirazione [degli attivisti pro-life-NdA] era creare un blocco per impedire alla clinica di fornire servizi di salute riproduttiva e ai pazienti di ottenerli». A condurre il processo sarà una donna, il giudice Colleen Kollar-Kotelly, già sostenitrice di Hillary Clinton: ha già vietato agli imputati di appellarsi al Primo Emendamento, che tutela la libertà religiosa, per spiegare le proprie azioni.
Molte sono le voci pro-life levatesi negli Stati Uniti per chiedere l’abrogazione della legge Face, considerata da più parti un vergognoso eccesso di potere e di autoritarismo da parte del Dipartimento di Giustizia di Biden. Le azioni non-violente a favore della vita non dovrebbero essere considerate un crimine federale. È già stato fatto notare, comunque, come la stessa normativa, oltre ai centri abortisti, tuteli – almeno sulla carta – anche i centri di gravidanza pro-life, un centinaio dei quali è già stato oggetto di attacchi, totalmente “sfuggiti” e ignorati, tuttavia, dall’amministrazione Biden, che non ha assunto alcun provvedimento nei confronti dei loro autori.
Contro la dottrina cattolica e contro la vita si è posta anche la sentenza, con cui la Corte Suprema del Messico ha definito addirittura incostituzionale considerare l’aborto come un crimine ed ha imposto conseguenti modifiche alle leggi vigenti, infischiandosene della separazione tra i poteri legislativo ed esecutivo, che spettano a Parlamento e governo, e potere giudiziario, che spetta alla magistratura e che consiste nella mera applicazione delle normative vigenti, non in una loro reinterpretazione e, tanto meno, non in una loro modifica. Calpestare tale struttura istituzionale ed addirittura inventarsi principi assenti nella Costituzione significa voler intraprendere una pericolosissima deriva autoritaria e dittatoriale.
La sentenza della massima Corte messicana, analogamente a quanto già avvenuto in Colombia, si scaglia, in particolare, contro gli articoli 330, 331 e 332 del codice penale federale, che stabiliscono pene per le donne che abortiscono, per chi faccia pressioni su di loro per indurle a tale gesto estremo, nonché per gli operatori sanitari che eseguono la procedura. D’ora in poi i suddetti articoli non avranno più effetto, mentre la decisione della magistratura varrà retroattivamente per quanti in passato siano stati perseguiti o condannati per questo reato. Ora spetterà al Congresso federale del Paese decidere se cambiare o meno la normativa.
Ancora in Messico Rodrigo Iván Cortés, politico ed ex-deputato, è stato condannato dalla Camera Superiore del Tribunale Elettorale della Magistratura federale per «violenza politica di genere», a causa di alcuni suoi post pubblicati su Twitter e Facebook. Ora è stato costretto a pagare una multa di 19.244 pesos, a postare sentenza e scuse sui social per un mese, a subire un autentico indottrinamento, dovendo partecipare ad un corso di ideologia gender, nonché a finire sulla lista nera dei “cattivi” ovvero sul Registro nazionale delle persone sanzionate per motivi di genere. La sua colpa? Aver definito un trans come un «uomo, che si definisce donna». Il che potrebbe sembrare lapalissiano per tutti, ma non per i giudici d’Oltreoceano. Cortés, dal canto suo, si è rammaricato della limitazione patita – non solo da lui, bensì da tutti –ed ha assicurato di voler continuare a battersi per il diritto di tutti ad esprimersi liberamente. Nell’immediato porterà il suo caso all’attenzione della Commissione interamericana per i diritti umani.
L’avv. Kristina Hjelkrem, che assiste Cortés, ha dichiarato: «Il dissenso non è discriminazione ed il dissenso pacifico non dovrebbe mai essere criminalizzato come violenza. È profondamente preoccupante che Cortés, che sta esercitando il suo diritto di condividere pacificamente le sue opinioni su di un dibattito importante e di attualità, sia stato condannato come autore di violenza politica, quando, in realtà, sono proprio i suoi avversari a perpetuare i disordini all’interno delle istituzioni politiche messicane. Purtroppo il caso Cortés è tutt’altro che un incidente isolato». Una frase, che suona come un sinistro monito…
In California, Janet Roberson, madre di tre figli, è stata licenziata, per essersi espressa contro un controverso piano di educazione sessuale, impregnato di ideologia gender e Lgbt, durante una riunione del consiglio del Distretto scolastico unificato di Benicia, scatenando l’indignata reazione della Sinistra locale, giunta persino ad attaccarla sulla stampa, definendola «bigotta», razzista e transfobica e specificando per quale azienda lavori, anzi lavorasse, inducendo infatti la stessa società ad assumere immediati provvedimenti. Ha spiegato sul proprio sito web la donna: «Presentare la degenerazione sessuale e la promiscuità come normali, naturali e salutari, in particolare per i bambini, rappresenta un obiettivo comunista, per minare e sottomettere i valori americani». Licenziare per queste parole, in spregio di qualsivoglia libertà d’espressione, corrisponde ad una manifesta ed evidente forma persecutoria contemporanea.
Un altro passo verso l’espulsione della dottrina cattolica dal contesto civile è stato compiuto sempre in California, dove una legge, la n. 957, approvata lo scorso 8 settembre, stabilisce che l’accettazione dello status di transgender o non-binari costituisca addirittura un fattore-chiave, affinché una coppia possa ottenere dal tribunale l’affidamento e la custodia dei figli e ciò, nell’anti-lingua ormai dominante, corrisponderebbe ad una sorta di “preoccupazione per la salute, la sicurezza ed il benessere” dei ragazzi. I genitori, che non si allineino a tale direttiva, potrebbero peraltro essere accusati di «abuso di minore». Incredibile!
Secondo la promotrice di tale legge, Lori Wilson, appartenente al Partito Democratico, l’affermazione del gender consentirebbe ad un bambino, qualora lo desiderasse, di tingersi le unghie o di portare i capelli di qualsiasi lunghezza. Da tener presente quanto i giudici siano già pesantemente condizionati dalle norme vigenti, che proibiscono di considerare, per l’affidamento, il sesso, l’identità di genere, l’espressione di genere o l’orientamento sessuale di un genitore o tutore legale o familiare, nel determinare il “miglior interesse” del minore in questione. I vescovi californiani, ovviamente, si sono opposti a questa nuova legge, che peggiora ulteriormente la situazione, poiché parifica il «mancato consenso di un genitore amorevole e protettivo» verso la «transizione sociale o medica» del ragazzo all’«abuso, alla violenza ed all’uso di sostanze stupefacenti per le dispute sulla custodia», criminalizzando papà e mamme davvero premurosi ed attenti ad una crescita equilibrata dei propri figli.
Ora spetterà al governatore dello Stato americano, il democratico Gavin Newsom, firmare o meno tale normativa entro il prossimo 14 ottobre. Ma lo scenario non sembra profilare grandi colpi di scena…
La deriva morale più totale, non solo verso la dottrina cattolica ma soprattutto verso il più elementare buon senso, l’ha impersonata anche il fatto che, nel Tennessee, un giudice abbia avuto l’impudenza di bloccare l’applicazione della legge SB 3 – che sarebbe già dovuta entrare in vigore peraltro lo scorso luglio -, finalizzata a vietare spettacoli sessualmente espliciti in luoghi accessibili ai minori. In tale calderone finisce “certo” «cabaret» con «ballerine in topless, go-go dancer, ballerine esotiche, spogliarelliste» o drag queen vale a dire, in linguaggio giuridico, «imitatori di modelli maschili o femminili», che sollecitino un «interesse pruriginoso». La normativa prevede sanzioni lievi per le infrazioni iniziali, ma, in caso di recidiva, sono previste pene fino a sei anni di carcere. Cosa può aver indotto, dunque, un giudice ad opporvisi? Il pretesto è giunto da un concetto manifestamente distorto, quello di libertà di parola. Ma è evidente come la menzogna stia strozzando il buon senso.