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De-ospedalizzare l’aborto con la RU486 ai tempi del coronavirus?

Diario di bioetica31 Marzo 2020
Testo dell'audio

La rete Pro-Choice approfitta dell’epidemia per spingere l’acceleratore sull’aborto farmacologico, con la scusa di “non congestionare gli ospedali”, autorizzando la procedura nei consultori e spostando il limite della somministrazione a sette settimane anziché a nove. Peccato che il protocollo di attuazione preveda quattro visite mediche in ospedale: una prima visita è prevista per gli accertamenti; ne segue una seconda per la somministrazione della prima pillola, il mifepristone, accompagnata ormai nella prassi (in Italia, nel 76% dei casi) da una permanenza ospedaliera di poche ore. Se, dopo questa, l’aborto non verifica, viene somministrato al terzo appuntamento il misoprostol, per l’espulsione del sacco amniotico contenente l’embrione. Dopo due settimane dall’assunzione del mifepristone, viene effettuata una quarta visita per accertarsi che l’utero sia completamente vuoto. Infatti, se così non fosse, si dovrebbe ricorrere all’aborto chirurgico (circa il 5-8% dei casi). Dunque, è evidente che l’obiettivo di decongestionare gli ospedali non verrebbe affatto raggiunto con la Ru486.

In questa puntata, vedremo più a fondo il meccanismo d’azione della RU486, il protocollo di attuazione, gli effetti fisici e psicologici sulla donna e la conseguente banalizzazione dell’aborto.

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