Così la “cancel culture” pretende di azzerare l’opera missionaria della Chiesa

Sono trascorsi circa quattro mesi dalla tavola rotonda su «La prima globalizzazione a partire dal Vangelo», promossa dalla facoltà di Teologia dell’Università ecclesiastica «San Damaso» di Madrid: qui illustri accademici ed esperti chiarirono già in modo inoppugnabile come nelle Americhe la Spagna portò prima di tutto la fede cattolica ad opera dei suoi missionari: non si trattò cioè di un’opera di conquista, bensì di evangelizzazione.
A riportare in auge l’argomento han provveduto però lo scorso 30 marzo due dicasteri vaticani, quello per la Cultura e l’Educazione e quello per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, con la Nota congiunta sulla “Dottrina della scoperta”, rimettendo in discussione tale evidenza in risposta alla richiesta, rivolta al Papa da alcuni gruppi indigeni del Canada, di ritirare le bolle dell’epoca della scoperta dell’America, in particolare la Dum Diversas del 1452, la Romanus Pontifex del 1455 di Niccolò V e l’Inter Cætera del 1493 di Alessandro VI. Citando imprecisati studi storici, il testo firmato dal regnante Pontefice non giunge a revocare quei documenti, però tende a cancellare, con un colpo di spugna, qualsiasi legame (che invece vi fu) tra la Chiesa e la conquista di quel Continente, suggerendo che i Paesi destinatari delle bolle ne abbiano «manipolato il contenuto a fini politici, per giustificare atti immorali contro le popolazioni indigene, talvolta compiuti senza l’opposizione delle autorità ecclesiastiche». Così è scritto. Ma andò davvero in questo modo?
No. I testi, cui qui si fa riferimento, semplicemente diedero una base legale agli esploratori portoghesi e spagnoli, per rivendicare «terre desolate» popolate da «infedeli», portandovi il Cristianesimo. Secondo quanto dichiarato al prestigioso quotidiano spagnolo Abc dallo storico Estebam Mira Caballos, «la Corona spagnola era ossessionata dal favorire l’evangelizzazione degli indigeni, come dimostra la sua determinazione ad inviare religiosi nelle Indie». Qualora ciò non fosse avvenuto o fosse avvenuto a discapito della popolazione locale, certamente la concessione sarebbe stata ritirata. Fu quello il momento storico della caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi (1453), per cui la Santa Sede cercò di «compensare questa perdita, favorendo qualsiasi impresa che espandesse la frontiera cristiana».
Isabella la Cattolica autorizzò il progetto di Cristoforo Colombo solo con la premessa e con la promessa che questo servisse per evangelizzare le terre lontane del Gran Khan, zeppe di bande di infedeli. Poi le terre non furono, in realtà, quelle del Gran Khan, ma le ragioni di fondo delle spedizioni non mutarono, nemmeno con i sovrani successivi. Già al secondo viaggio si imbarcò il primo religioso e subito vennero mobilitati i grandi Ordini per questa nuova impresa. Il giurista Juan de Solorzano Pereira (1575-1654), nella sua opera De indiarum iure, ha precisato che, quando a Filippo II venne suggerito di abbandonare le Filippine per la povertà della terra e per gli alti costi dell’evangelizzazione, egli rispose «che per la conservazione di una sola cappella o di un solo cristiano avrebbe speso volentieri non solo i frutti delle Indie, bensì persino tutte le entrate della Spagna».
Secondo Tomás Pérez Vejo, ricercatore dell’Inah, Istituto di Antropologia e Storia del Messico, la presenza oggi di milioni di cattolici in America ed in Asia sarebbe stata possibile proprio grazie alla collaborazione tra Chiesa e Corona: «Pensare il contrario significherebbe lasciarsi trasportare dalle mode. L’unico diritto che la Monarchia rivendicò per il suo dominio in America furono gli obblighi contratti col Papa».
Alla morte improvvisa di viceré o governatori, secondo la legge reale, doveva essere il più alto ecclesiastico della località ad assumere temporaneamente il potere, in attesa della nuova nomina. Era inoltre stabilito che, in tutte le piazze principali, la chiesa dovesse trovarsi accanto al municipio, ad indicare anche logisticamente ed infrastrutturalmente la stessa intesa. Gli abusi commessi dai conquistadores furono subito puniti dalla Corona, che fece di tutto per proteggere gli indigeni dagli avventurieri, avidi soprattutto dell’oro trovato in queste regioni, mentre la Chiesa tentava di parlare ai nuovi fedeli nella loro lingua. Fra’ Antonio de Montesinos (1475-1540) così come fra’ Bartolomeo de Las Casas (1474/1484 – 1566), entrambi domenicani, si schierarono apertamente contro il sistema delle encomiendas, ad esempio, molto influenti a Corte e forti dell’appoggio della Corona, che diede loro retta ed intervenne immediatamente, neutralizzando e punendo i responsabili.
L’encomienda prevedeva che gli abitanti di un villaggio venissero affidati ad un colono (encomendero), che aveva il compito di proteggerli e di evangelizzarli. Questi era autorizzato anche a riscuotere tributi in natura o sotto forma di lavoro obbligatorio. Non mancarono in tutto questo abusi e maltrattamenti, ciò che determinò l’intervento deciso dei religiosi prima e della Corona poi.
La Nota congiunta sulla “Dottrina della scoperta” dello scorso 30 marzo si dissocia dalle intenzioni “coloniali”, con cui sarebbero state utilizzate le antiche bolle pontificie, pur rivendicando quella intitolata Sublimis Deus del 1537, con cui fu riconosciuta l’umanità degli indios (ciò che peraltro nessuno, fin dall’arrivo di Cristoforo Colombo, s’era mai sognato di negare, come prova lo stesso testamento di Isabella la Cattolica). Tale Nota è stata pubblicata in italiano, inglese e francese. Curiosamente, non in spagnolo. Del resto, papa Bergoglio, essendo latino-americano, conosce benissimo l’importanza rilevante riconosciuta alla popolazione indigena in America Latina, al di là di ogni utopia retorica e terzomondista sviante ed infondata.
All’accusa, mossa alla Spagna dalla Nota congiunta sulla “Dottrina della scoperta”, d’aver manipolato e strumentalizzato le bolle pontificie del XV secolo, ha risposto in modo chiaro ed articolato sull’illustre quotidiano Abc il prof. Leáñez Aristimuño, docente di Politiche Linguistiche e idiomi presso l’Università «Simón Bolívar» di Caracas: questi, dice, «sono tutti miti europei proiettati sull’America».
Il prof. Pérez Vejo ha lanciato però un monito, che sarebbe bene non ignorare, anzi prendere sul serio, riflettervi e meditarne le conseguenze: il tentativo di dissociare l’eredità spagnola dalla Chiesa, afferma, «è un colpo di spugna. Se si inizia con questa politica di cancellazione, il passo successivo è quello di condannare tutta l’opera missionaria della Chiesa fino ad oggi. E che dire dei missionari messicani, andati ad evangelizzare il Giappone?». Già, sarebbe bene valutare i processi storici per quello che sono, evitando il ricorso a categorie mentali contemporanee, del tutto decontestualizzate, e soprattutto evitando processi sommari, storicamente infondati ed assolutamente fuorvianti se letti con le lenti ideologiche di oggi.