Andrea Previtali: Natività con annuncio ai pastori

(di Sara Magister) In un’omelia del 24 dicembre 2007, Benedetto XVI spiegò con nitida chiarezza perché l’arte e la tradizione popolare spesso ambientino la Natività in un edificio monumentale classico, ma in rovina: «In alcune rappresentazioni natalizie la stalla appare come un palazzo un po’ fatiscente. Se ne può ancora riconoscere la grandezza di una volta, ma ora è andato in rovina. Pur non avendo nessuna base storica, questa interpretazione, nel suo modo metaforico, esprime tuttavia qualcosa della verità che si nasconde nel mistero del Natale. Il trono di Davide è vuoto. Altri dominano sulla Terra santa. Giuseppe, il discendente di Davide, è un semplice artigiano; il palazzo, di fatto, è diventato una capanna. Nella stalla di Betlemme, proprio lì dove era stato il punto di partenza, ricomincia la regalità davidica in modo nuovo – in quel bimbo avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. Questo nuovo palazzo è così diverso da come gli uomini immaginano un palazzo e il potere regale. Il potere che proviene dalla Croce, il potere della bontà che si dona – è questa la vera regalità».
La venuta del Figlio di Dio sulla terra come l’ultimo tra gli ultimi ribalta dunque la concezione umana del potere e della gloria e chissà se papa Benedetto non avesse in mente proprio la bellissima interpretazione del Natale realizzata attorno al 1515-1520 dal pittore veneto-bergamasco Andrea Previtali.
Decadenza e dignità
Anche qui la scena è dominata da un grandioso edificio in rovina, ormai ridotto a un ricovero di fortuna. Ma la decadenza della gloria passata non sminuisce la dignità del luogo. Le proporzioni della nuova struttura sono altrettanto ariose e maestose, pur nella povertà dei suoi materiali. Il tetto aggiunto alle arcate dirute è sostenuto da pali lignei, che però hanno lo stesso diametro, forma e fusto liscio delle colonne antiche sullo sfondo.
Anche qui è evidente, dunque, che quelle mura diroccate hanno lasciato spazio a un nuovo inizio, che però non ricompone l’edificio nelle forme grandiose che aveva un tempo – i rocchi di colonna e i capitelli vengono lasciati a terra in ordine sparso, così come erano caduti – bensì lo ricostruisce in maniera del tutto nuova, dignitosa, ma inaspettata nella sua semplicità e povertà di materiali.
Allo stesso modo, quel nuovo edificio non ha più al suo centro un re con la corona in testa e seduto sull’alto di un trono scintillante, bensì un piccolo bambino appena nato, che la madre ha adagiato su un candido telo riposto sulla paglia e che è bisognoso del tepore del bue e dell’asinello.
I due animali sono però proprio quelli citati dalla profezia di Isaia (1,3): «Il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone». Ed è proprio da quel piccolo corpicciolo che emana quella luce incandescente, che sta squarciando sfolgorante le tenebre della notte, in un luogo dove non ci sono altre fonti di luce naturali. Il simbolismo della luce è una costante nell’arte e nella fede cristiana: la luce autoprodotta indica la presenza del divino, che rivela il vero senso del reale.
Per questo Maria e Giuseppe sembrano essersi dimenticati per un momento dei bisogni naturali del piccolo, per inginocchiarsi nella contemplazione silenziosa del Mistero divino, che ha preso corpo sotto i loro occhi. Ed è Maria che ha il privilegio di un rapporto diretto con il Figlio. I due si guardano negli occhi, in entrambi la luce rifulge nel suo massimo vertice, in quel telo bianco sotto il corpo di Gesù – prefigurazione del sudario – e in quel velo ugualmente bianco con cui il pittore ha voluto esaltare il volto della Vergine, proprio per attrarre l’occhio dello spettatore sulla loro indissolubile relazione. Giuseppe, come sempre, è in disparte, per non essere lui il padre del Bambino. Ma è comunque vicino, pronto a prendersene cura.
La Buona Novella
Nel frattempo, sullo sfondo a sinistra, l’angelo sta dando l’annuncio della buona novella ai pastori, che si risvegliano abbagliati da una luce che illumina la notte a pieno giorno. Saranno proprio loro a riconoscere per primi, dopo le nutrici, il Messia nel bimbo appena nato.
Sono i vangeli apocrifi a tramandarci la testimonianza delle due attendenti al parto. Furono loro le prime a rendersi conto della natura divina di Gesù, per la luce che quel corpo emanava e per la verginità di Maria. Nella tela di Previtali le due donne hanno un posto nel piano intermedio della composizione e le loro vesti chiare spiccano nel buio del prato notturno. Stanno ormai lasciando il luogo del parto, raccontandosi vicendevolmente le loro sensazioni e recando con sé gli attrezzi utili alla nascita e al primo bagnetto del bambino: il secchio con l’acqua, il catino, la brocca.
Riprendiamo allora le parole di papa Benedetto XVI, tratte dall’omelia già sopra citata: «Nella stalla di Betlemme cielo e terra si toccano. Il cielo è venuto sulla terra. Per questo, da lì emana una luce per tutti i tempi; per questo lì s’accende la gioia; per questo lì nasce il canto».
Questo testo è stato tratto dal numero di dicembre del periodico Radici Cristiane. E’ possibile acquistare la rivista anche on line o sottoscrivere un abbonamento, cliccando www.radicicristiane.it